La borsa cinese è entrata nella fase “orso” o “bearish”, per usare la terminologia anglosassone. L’indice composito della Borsa di Shanghai ha chiuso oggi, infatti, in calo del 20% rispetto ai massimi toccati il 25 gennaio scorso. Sono diverse le preoccupazioni degli investitori in questa prima metà dell’anno, come conferma anche il deprezzamento dello yuan contro il dollaro del 4% negli ultimi 2 mesi e mezzo e il cui bilancio da inizio 2018 è negativo dello 0,7%. Cosa sta succedendo di preciso? L’umore sui mercati finanziari è grigio per i timori di una guerra commerciale tra USA e Cina sui dazi imposti dall’amministrazione Trump su prodotti cinesi per 50 miliardi di dollari, nonché sulla minaccia della Casa Bianca di imporne altri su importazioni cinesi per 200 miliardi di dollari all’anno.

Come sappiamo, il presidente americano punta a ridurre il deficit commerciale a stelle e strisce, che viaggia ormai nell’ordine di oltre 550 miliardi annui, di cui 370 nei confronti della sola economia asiatica.

Borsa cinese premiata, ora spera nei capitali esteri

Non solo dazi, però. L’amministrazione USA ha imposto restrizioni alle società che risultino di proprietà cinese per almeno il 25% del loro capitale. Verrà loro impedito di acquisire quote di controllo in società tecnologiche americane, nel tentativo di Washington di porre fine ai furti delle proprietà intellettuali, praticati da entità cinesi. Pechino respinge sdegnatamente le accuse, ma Donald Trump non ha intenzione di indietreggiare sul tema, ponendosi l’obiettivo di tutelare i brevetti americani.

Il rallentamento della Cina

A conferma che le tensioni tra le prime 2 economie mondiali siano elevate e si stiano già traducendo in un allentamento delle relazioni finanziarie vi sono i dati sui primi 5 mesi dell’anno, quando gli investimenti cinesi negli USA risultano crollati a 1,8 miliardi di dollari, pari al -92% su base annua. Per questo, la stessa Wall Street si mostra preoccupata dei minori potenziali flussi di capitali dall’Asia, tanto che l’indice Dow Jones ha ripiegato del 9% rispetto ai massimi toccati 5 mesi fa.

Lo stesso deprezzamento del cambio cinese sta rafforzando i dubbi tra gli investitori, i quali adesso temono ripercussioni negative sulle società con livelli elevati di indebitamento in dollari. Per non parlare del rallentamento atteso per la crescita economica cinese, stimata nell’ordine dello 0,1-0,5%, a seconda dell’intensità con cui verranno alzati i dazi USA contro i prodotti esportati da Pechino. Lo scorso anno, il pil è aumentato del 6,9%, ma per quest’anno verrebbe atteso nell’ordine del 6,4-6,5%. Dai dati di maggio, parrebbe che la seconda economia mondiale starebbe iniziando ad avvertire i primi segni della morsa USA.

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Una crescita del pil superiore, comunque, al 6% non dovrebbe destare preoccupazioni, se si considera che nel migliore dei casi l’America di Trump riuscirebbe a crescere quest’anno meno della metà. Eppure, bisogna allargare lo sguardo all’insieme dei dati per comprendere le ragioni dei timori internazionali. Il debito totale cinese vale 2,5 volte il pil e non accenna a rallentare la corsa, contrariamente a quest’ultimo. Nel caso di deflussi finanziari ingenti, Pechino si vedrebbe costretta a imporre restrizioni ai movimenti dei capitali, similmente a quanto fece nell’estate del 2015, quando bloccò persino la vendita dei pacchetti azionari di peso degli investitori stranieri, imbrigliando miliardi di dollari sul mercato. L’alternativa sarebbe alzare i tassi per arrestare i deflussi e magari attirare capitali netti dall’estero, ma la mossa avrebbe due conseguenze negative principali: renderebbe ancor meno sostenibili i debiti di numerose società e banche cinesi; colpirebbe consumi interni e investimenti proprio nel momento in cui diventano essenziali per rimpiazzare le minori esportazioni attese per via della politica commerciale americana.

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