E’ boom dell’inflazione presso le principali economie mondiali. Tanto l’abbiamo invocata, che alla fine ha fatto la sua comparsa. Molto più negli USA che nell’Eurozona. In aprile, i prezzi al consumo sono cresciuti del 4,2% annuale per le famiglie americane, dell’1,6% per quelle dell’Eurozona. Effetto diretto della ripresa economica globale, è il ragionamento prevalente, se non esclusivo che si fa in questi mesi. Poiché la domanda si è messa in moto e l’offerta perlopiù arranca a causa delle restrizioni anti-Covid ancora attive, i prezzi salgono.

Dal petrolio alla farina, dal legname per le costruzioni al rame, tutto rincara e spesso ai massimi di sempre.

Eppure, il boom dell’inflazione con la ripresa economica non c’entrerebbe, se non a causa dell’intervento delle banche centrali. Già negli anni Sessanta, il futuro Premio Nobel per l’Economia, Milton Friedman, sosteneva che l’inflazione fosse esclusivamente un fenomeno monetario. In altre parole, sono le banche centrali che stampano troppa moneta e finiscono per aumentare i prezzi.

Per capire il ragionamento di Friedman e degli economisti monetaristi, vi proponiamo un esempio molto semplice. Supponiamo che in un sistema economico circolino 100 euro con cui si possono comprare solamente due beni: arance e pane. Immaginiamo che per un qualunque motivo (bassi raccolti, mutamenti nelle preferenze del consumatore, etc.), la domanda di arance salga. A questo punto, per la legge della domanda e dell’offerta, il loro prezzo aumenta. In teoria, questo porterebbe all’inflazione, cioè ad un aumento generalizzato dei prezzi al consumo. Ma non sarebbe così se in circolazione restassero sempre e solo i 100 euro di prima. A quel punto, se le arance costassero di più, rimarrebbero meno euro per il pane. Dunque, la minore domanda di pane porterebbe a una riduzione del suo prezzo. E ciò compenserebbe l’aumento del prezzo delle arance.

Boom dell’inflazione a causa della moneta

Nell’esempio appena proposto, l’inflazione non si materializza per il semplice motivo che la quantità di moneta in circolazione resta uguale e, quindi, se aumentano i prezzi di un bene, dovranno necessariamente diminuire i prezzi di altri beni. Friedman ne deduceva che solo se le banche centrali emettono più moneta di quanta ne serva per effettuare gli scambi possa esistere inflazione. E proponeva di legarne la crescita a quella della produttività, ergo al tasso di crescita dell’economia.

Vi stiamo dicendo che il boom dell’inflazione di questi mesi non sarebbe possibile senza le banche centrali. Se aumentassero i prezzi di tutte le materie prime, a parità di moneta in circolazione la domanda dovrebbe diminuire per altri beni e così anche i relativi prezzi. L’indice generale rimarrebbe grosso modo invariato. Invece, sta accadendo che le principali banche centrali stiano da anni, e ancor più con la pandemia, perseguendo esplicitamente l’accelerazione dei tassi d’inflazione attorno a target fissati nell’ordine del 2%. Per farlo, iniettano liquidità sui mercati sotto forma di acquisti di bond e al contempo tengono i tassi d’interesse molto bassi, se non persino negativi.

Da quando è arrivata la pandemia in Occidente, la BCE ha visto esplodere gli assets a bilancio di 2.930 miliardi di euro, la Federal Reserve di circa 3.720 miliardi di dollari. Tenuto conto dei PIL pre-Covid di Eurozona e USA, queste cifre incidono rispettivamente per quasi il 25% e oltre il 17%. In sostanza, le prime due banche centrali del pianeta hanno inondato i mercati di liquidità tra un quarto e oltre un sesto delle dimensioni delle rispettive economie. Mai era avvenuto un fatto di simile intensità nella storia degli ultimi decenni.

La temuta corsa dei prezzi nell’Eurozona

I risultati stanno già toccandosi con mano.

L’aggregato monetario M3, che capta piuttosto bene il grado di liquidità nell’Eurozona, a inizio anno saliva del 12,5% tendenziale. Il ritmo è circa il triplo rispetto al periodo che va dal 2016 agli inizi del 2019. Già due anni fa, prima della pandemia, si notava un’accelerazione fino al 6%, salvo rallentare il passo tra fine anno e inizio 2020 per impennarsi con la crisi sanitaria. Per M3 intendiamo banconote e monete circolanti, depositi a vista, depositi a breve e depositi a termine. Il suo aumento anticiperebbe di alcuni mesi quello dell’inflazione. Qui, a preoccupare sono i ritmi. Stiamo triplicando rispetto al trend del quinquennio passato. Se anche i tassi d’inflazione nell’area accelerassero negli stessi termini, sarebbe un problema. In assoluto, non avremmo cifre esorbitanti, ma le variazioni si farebbero sentire sulla vita di tutti i giorni. Passare da un’inflazione all’1% a una del 3% non è qualcosa che lascerebbe indifferenti.

Le banche centrali avrebbero modo di reagire a tutto ciò. Alzando i tassi d’interesse e/o tagliando o finanche azzerando gli acquisti di bond, ridurrebbero la liquidità in circolazione. E il boom dell’inflazione non vi sarebbe, semplicemente perché a un rialzo di alcuni prezzi corrisponderebbe il ribasso di altri. E’ la moneta a dare sfogo alla domanda, traducendola in un rincaro generalizzato del costo della vita. Tassi più alti spingerebbero le famiglie a consumare di meno e a risparmiare di più. La domanda complessiva si abbasserebbe e lo spettro dell’inflazione verrebbe meno. Ma questo scenario implica minori tassi di crescita economica, nonché maggiori costi di emissione per indebitarsi. Ed è proprio quello contro cui le banche centrali lottano da anni nel nome della pace sociale. Peccato che il boom dell’inflazione rischi di scatenare tensioni sociali.

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