Questa settimana il prezzo del petrolio ha superato la soglia dei 90 dollari al barile (Brent) per la prima volta dall’ottobre scorso. Mette a segno un rialzo del 20% dall’inizio dell’anno. A surriscaldare le quotazioni internazionali ci sono le tensioni geopolitiche, specie in Medio Oriente, con Israele e Iran sempre più in rotta di collisione. Si rischia una guerra diretta, anziché “per procura” come quella che Teheran nei fatti sta combattendo tramite Hamas nella Striscia di Gaza, Hezbollah nel Libano e i ribelli Houthi nello Yemen.

C’è anche la volontà dell’Opec di tenere compressa l’offerta, a fronte di una domanda globale che sta tenendo. Gli analisti si attendono un deficit di offerta nell’ordine dei 450.000 barili al giorno per il secondo trimestre. Invece, Bitcoin ha ripiegato verso i 66.000 dollari, tenendosi ben sotto i massimi di sempre toccati a marzo sopra 73.000 dollari.

Criptovalute asset energivoro

Tra i due asset esiste un qualche legame? Volendo ironizzare, trattasi di due comparti estrattivi. Coloro che rendono possibile l’offerta di “criptovaluta” sono, effettivamente, chiamati “miners”, letteralmente “estrattori”. A differenza del petrolio, però, Bitcoin non è un asset fisico e viene utilizzato ancora da pochissime persone nel mondo come mezzo di pagamento. A cosa serve in buona sostanza? Molti lo percepiscono come un “oro digitale”, cioè una forma di conservazione del valore del denaro nel tempo. Moltissimi altri inorridiscono al solo pensiero che possa essere associato alla gloriosa storia plurimillenaria del metallo.

Una cosa è certa: Bitcoin e petrolio sono meno distanti di quanto crediamo. Volete un dato? Per “estrarre” i primi si rendono necessari oltre 160 TWh all’anno di energia. Per intenderci, i consumi superano quelli dell’Egitto, un’economia emergente da 400 miliardi di dollari e composta da oltre 100 milioni di abitanti. Le emissioni di CO2 nel 2023 per effetto del “mining” sono state pari a 89,93 milioni di tonnellate equivalenti, quanto nell’intero Cile.

Bitcoin è un asset energivoro. Non è un caso che la sua produzione avvenga perlopiù in paesi come Stati Uniti, Kazakistan, Russia e Canada, tutti produttori di petrolio e in cui l’energia abbonda e costa relativamente meno che altrove.

Legame stretto tra tassi e inflazione

Se il prezzo del petrolio sale, dunque, dovremmo attenderci anche un aumento delle quotazioni di Bitcoin. In realtà, i costi di estrazione spiegano solo parte del trend delle “criptovalute”. Essendo un fenomeno ancora prettamente speculativo, il legame appare più diretto con altre variabili. E paradossalmente, un rincaro del petrolio dovrebbe portare a un ripiegamento dei prezzi dei token digitali. Più il primo fenomeno si protrae e minori le probabilità che le banche centrali si affrettino a tagliare i tassi di interesse. Esiste una stretta correlazione globale positiva tra quotazioni del petrolio e inflazione. E finché quest’ultima rimane elevata nelle aspettative del mercato, i tassi non potranno scendere, se non minimamente.

E tassi alti disincentivano all’acquisto di Bitcoin. In primis, perché favoriscono la tenuta dei rendimenti obbligazionari e spostano capitali a beneficio dei bond. Secondo, riducono la liquidità a basso costo sul mercato, mettendone a disposizione di meno per la speculazione e gli asset rischiosi. In altre parole, il mondo delle crypto si alimenta di denaro facile. Più ce n’è e maggiori le quotazioni. Ma il petrolio sta giocando un brutto scherzo, perlomeno momentaneamente. Il suo boom segnala un rischio di stagflazione più elevato di quanto scontato nei mesi passati. E sappiamo cosa accadde ai Bitcoin con l’aumento dell’inflazione e dei tassi tra il 2021 e il 2022: quotazioni in picchiata fino a -75% dai massimi. Il recupero iniziò solo quando si prospettò un allentamento monetario globale.

Petrolio minaccia nel breve termine per Bitcoin

Le tensioni sul mercato del petrolio potrebbero protrarsi fino a fine anno.

C’è chi sostiene che il mondo arabo, guidato dai sauditi, voglia tenere alte le quotazioni per punire il presidente Joe Biden alle elezioni presidenziali di novembre. Una sua eventuale sconfitta, ovvero la vittoria di Donald Trump, sarebbe interpretata come “bearish” per il greggio: minori vincoli ambientali negli Stati Uniti per le trivellazioni, rapporti più amichevoli con Riad e disimpegno di Washington dalla guerra russo-ucraina e, in parte, dal Medio Oriente. Tutti fattori che farebbero intravedere quotazioni petrolifere più basse, ergo un possibile tonificante per Bitcoin. Ma da qui a novembre la strada è lunga. A giorni, poi, arriva l’atteso halving.

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