Questa settimana, la banca centrale di El Salvador ha acquistato altri 150 Bitcoin, arrivando a detenerne 700 a bilancio. Alle quotazioni di ieri, parliamo di un valore di quasi 30 milioni di dollari. Il paese dell’America Centrale è stato il primo al mondo a imporre la “criptovaluta” come legale insieme al dollaro. Imprese e cittadini hanno l’obbligo di accettarla in pagamento da altri privati e possono usarla per pagare le tasse.

El Salvador non è l’unico paese, però, a guardare con interesse a questa realtà.

Il Panama sta sostenendo con un’apposita legge l’adozione dell’infrastruttura nota come “blockchain”, al fine di affiancare al dollaro le “criptovalute” come Bitcoin ed Ethereum. Nessun obbligo legale in vista per il momento. Allo stesso tempo, l’Ucraina ha riconosciuto questo asset e punta a regolamentarlo per diffonderne l’uso mitigandone i rischi. E persino Cuba ha espresso interesse, travolta dall’inflazione a tre cifre scatenatasi a seguito della riforma monetaria di inizio anno.

Bitcoin mezzo di pagamento inadatto

Eppure, Bitcoin non si è rivelato ad oggi un mezzo di pagamento ideale. Tutt’altro. Lanciato il 23 gennaio da Satoshi Nakamoto, probabile pseudonimo per l’inventore o il gruppo di inventori reali, il primo pagamento tramite di esso avvenne solamente il 22 maggio 2010. Quel giorno, uno sviluppatore di nome Laszlo Chanyez annunciò di avere comprato due maxi-pizze, di cui una che avrebbe conservato per il giorno successivo, pagandole 10.000 Bitcoin. Allora, il valore della transazione fu di appena 41 dollari, dato che ogni unità scambiava a meno di metà di un centesimo. Oggi, equivarrebbe a circa 420 milioni di dollari. E ai prezzi toccati nell’aprile scorso, sarebbe stata di quasi 650 milioni.

Chissà quante volte Chanyez si sarà morso le mani e chissà se colui che ricevette i Bitcoin in pagamento li abbia tenuti in portafoglio o se ne sia disfatto per monetizzare quei pochi dollari di cui sopra.

L’unica speranza è che almeno la pizza sia stata buona. Fatto sta che questo avvenimento ci spiega perfettamente perché ad oggi la “criptovaluta” non possa considerarsi in alcun modo un mezzo di pagamento adeguato. Chi paga, deve presumere che il valore dell’asset resti pressappoco invariato in futuro o auspica che esso si riduca. Chi riceve il pagamento, deve sperare che non crolli. Se entrambe le parti ne prevedessero la caduta, il pagamento non sarebbe accettato dal venditore. Se entrambe le parti ne prevedessero il boom, al contrario la transazione neppure avrebbe inizio, dato che l’acquirente non pagherebbe certo in Bitcoin.

E poiché parliamo di una valuta altamente volatile, di fatto un sistema dei pagamenti basato su di essa non reggerebbe a lungo. Anzi, non decollerebbe neppure, come stiamo verificando in queste settimane in El Salvador. Tutt’al più, parliamo di un asset da inserire in portafoglio per una percentuale contenuta al fine di potenziarne la redditività. Insomma, un bene d’investimento di cui non si conosce a sufficienza – e a differenza di asset storici come l’oro – l’andamento nelle fasi positive e negative per l’economia mondiale. Non ha le qualità di bene rifugio, a tratti si mostra un bene tipicamente speculativo, in altri momenti attira capitali dalle economie in preda a crisi valutarie e iperinflazione.

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