Diceva Margaret Thatcher che “se devi dire che sei una signora, forse non lo sei”. E questa frase si addice molto alla BCE di questi mesi. La scorsa settimana, il governatore Christine Lagarde ha dichiarato ancora una volta che l’istituto si atterrà al suo mandato di perseguire la stabilità dei prezzi nell’Eurozona, che non impedirà che l’alta inflazione di questa fase alimenti comportamenti nell’economia che la rendano duratura. Ben prima della signora Thatcher, i latini dicevano “excusatio non petita, accusatio manifesta”.

La BCE deve spiegare ogni due e tre che saprà ridurre l’inflazione, dato che ad oggi nessuno ha potuto constatarne tale capacità. Anzi, i prezzi al consumo accelerano di mese in mese e i tassi d’interesse sono stati alzati solamente due volte e troppo poco.

Collasso dell’euro in buona compagnia

Venerdì, ennesima seduta negativa per il cambio euro-dollaro, sprofondato poco sopra a 0,9750, nuovo record minimo dal 2002. Per fortuna che a tenergli compagnia c’è la sterlina, scesa sotto 1,10 contro il biglietto verde, mai così male dal 1985. In quell’anno, c’era proprio la Thatcher al governo e, soprattutto, il dollaro si rafforzò così tanto da indurre le prime cinque economie di allora a riunirsi all’Hotel Plaza di New York per trovare un accordo per indebolire la divisa americana. Fu così che nacque l’Accordo di Plaza, che ebbe il merito di rivalutare i tassi di cambio contro il dollaro.

Al tempo, l’accordo fu voluto dall’amministrazione Reagan, che non vide di buon occhio il super dollaro per l’impatto negativo sulle esportazioni americane. Il problema per la BCE è che oggi non c’è aria di intesa. Le banche centrali lottano contro l’inflazione e hanno tutte bisogno di rafforzare i rispettivi cambi per giungere all’obiettivo. La stessa Federal Reserve per il momento vede positivamente il super dollaro, perché almeno frena l’inflazione importata.

Incertezze alla BCE

Bisogna far da sé. E la BCE di Lagarde non ha dato sinora una dimostrazione brillante in tal senso. Ha reagito tempestivamente alla pandemia con il famoso PEPP. Dopodiché non si è più raccapezzata quando l’inflazione tornava a salire. Stretta tra il rischio recessione e l’inflazione verso la doppia cifra, sta facendo la fine dell’Asino di Buridano. Posto dinnanzi a due mucchi di fieno, non seppe scegliere quale mangiare e morì di fame. E la BCE non sta scegliendo, perché non sa assumersi alcuna responsabilità. Che poi è la storia delle istituzioni europee di questi decenni.

Lagarde ha alzato un po’ i tassi d’interesse nella speranza che bastasse a “raffreddare” l’inflazione nell’area e che nel frattempo la crisi energetica rientrasse. Poiché la realtà marcia verso un’altra direzione, è costretta ad aumentare la frequenza delle sue esternazioni da “falco”, ma senza successo. Lo dimostra l’euro. Se vogliamo, anche lo spread lancia il medesimo messaggio.

Eurozona sempre più divisa

A giugno la BCE annunciò il varo di uno scudo anti-spread (TPI), presentato al pubblico a luglio. Per poi partorire il classico topolino. Nulla di seriamente capace di sventare un attacco speculativo contro i titoli di stato italiani o di altri paesi. Se lo spread ad oggi non è esploso, non è stato tanto per la credibilità del nuovo strumento, quanto per gli ingenti acquisti di BTp realizzati nell’ambito dei reinvestimenti con il PEPP. In pratica, la flessibilità offerta dal vecchio strumento è servita a coprire parzialmente l’inconsistenza del nuovo.

Capite forse meglio perché l’euro alzi bandiera bianca. E’ stampato da una banca centrale senza spina dorsale, perennemente in balia degli scontri tra Nord e Sud Europa. A differenza delle divergenze tra “falchi” e “colombe” in seno a ogni altro istituto nel mondo, qui il dibattito ruota tutto attorno alla salvaguardia di un’area del continente a discapito dell’altro.

La BCE non rassicura, insomma, sulla lunga vita della moneta che essa stessa stampa.

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