Quest’anno, il dollaro ha guadagnato mediamente l’8,3% contro le altre principali valute mondiali. Se teniamo conto dei pesi delle economie con cui gli USA commerciano, l’apprezzamento medio ponderato del biglietto verde sarebbe del 14%. Il cambio è diventato così forte – salito ai massimi da venti anni a questa parte – che si torna a parlare di “super dollaro”. E così abbiamo che lo yen è scivolato ai minimi dal 2002, mentre il cambio euro-dollaro è sceso in settimana ai livelli più bassi degli ultimi venti anni.

Diversi analisti non escludono che possa persino scendere sotto la parità. Il chief international strategist di Deutsche Bank, Alan Ruskin, ritiene che la soglia di allarme possa scattare al raggiungimento di un cambio euro-dollaro di 0,90. A quel punto, sostiene, qualcuno potrebbe avanzare un nuovo Accordo di Plaza.

Cosa fu l’Accordo di Plaza

L’Accordo di Plaza si tenne nel settembre del 1985 tra USA, Regno Unito, Francia, Giappone e Repubblica Federale Tedesca, vale a dire il formato G5 di allora. Esso consistette nel concordare l’indebolimento del super dollaro attraverso azioni congiunte tra le rispettive banche centrali. Negli anni successivi, effettivamente il cambio americano si svalutò del 50%. Il nome dell’intesa deriva dal fatto che i ministri delle Finanze e i governatori centrali del G5 s’incontrarono all’Hotel Plaza di New York. Successivamente, esso sarebbe stato rilevato da Donald Trump.

Perché si arrivò a tale accordo? Gli USA stavano registrando una crescita economica sostenuta, ma a fronte di disavanzi delle partite correnti nell’ordine del 3% del PIL. Essi erano stati provocati proprio dal super dollaro. Viceversa, l’Europa aveva vissuto un periodo di recessione in presenza di elevati surplus commerciali. In pratica, l’Accordo di Plaza servì per riequilibrare tali fenomeni: più crescita economica in Europa e minori disavanzi commerciali negli USA.

Differenze con la svalutazione del super dollaro nel 1985

Possibile immaginare un nuovo Accordo di Plaza nel 2022? Il mondo dal 1985 è cambiato tantissimo.

Per prima cosa, i tassi di cambio sono meno manipolabili con la globalizzazione del mercato dei capitali. Secondariamente, l’euro ha sostituito 19 monete nazionali, tra cui marco tedesco, franco francese e lira italiana. Terzo, la Cina si è affacciata al mondo come seconda economia più importante. Quarto, per quanto il cambio americano si sia rafforzato di recente a tassi superiori al 12% medio annuo del quinquennio pre-Plaza, non sembrano ancora scattate le soglie di allarme.

Eppure vi sono varie similitudini con il 1985. Come allora, la politica monetaria della Federal Reserve risultava ben più restrittiva di quella adottata dalle altre principali banche centrali. I tassi d’inflazione sono tornati anche oggi elevati in quasi tutto il mondo ricco e l’Europa sta imbattendosi nel rischio di recessione economica. Per non parlare del disavanzo commerciale record degli USA, oramai sopra i 1.000 miliardi di dollari all’anno. C’è, però, una differenza con la metà degli anni Novanta: finora, il super dollaro conviene agli americani, perché tiene bassi i costi dei beni importati e modera l’inflazione.

L’America teme la recessione

Tuttavia, l’economia americana rischia essa stessa di cadere in recessione proprio a causa del super dollaro. Nel primo trimestre, l’eccesso di importazioni ha depresso il PIL, mandandolo sotto i livelli del trimestre precedente. Già prima della pubblicazione del dato, secondo analisti come Goldman Sachs, le probabilità di una recessione nel medio termine erano salite drasticamente. Se si faranno ancora più forti, la FED potrebbe arrivare ad adocchiare un secondo Accordo di Plaza, concordando con le altre principali banche centrali la svalutazione del dollaro. Resta da vedere con quali modalità. Difficile riattivare il “quantitative easing” con un’inflazione ai massimi da 40 anni. Chissà che l’allarme non scatti già con l’eventuale discesa del cambio euro-dollaro sotto la parità e/o un rapporto con lo yen a 150.

giuseppe.timpone@[email protected]