Chissà come avranno preso alla Banca Centrale Europea (BCE) gli attacchi arrivati dal governo Meloni sull’annunciato aumento dei tassi d’interesse anche a fine luglio. Due ministri hanno preso di mira le dichiarazioni del governatore Christine Lagarde al simposio di Sintra, Portogallo. Sono stati i due vice-premier Antonio Tajani e Matteo Salvini, rispettivamente a capo di Forza Italia e Lega, partiti alleati della premier Giorgia Meloni. Quest’ultima stessa ha dichiarato ieri in Parlamento che l’aumento dei tassi può fare più danni della stessa inflazione.

A Francoforte non gradiscono eventuali interferenze della politica nel suo operato.

Ma in questo caso hanno ben altro a cui pensare. La stretta monetaria è iniziata quasi un anno fa con un primo aumento dei tassi annunciato a giugno e implementato a luglio. Da allora, il costo del denaro è salito per otto volte e per complessivi 400 punti base o 4%. Mai così rapidamente nella pur breve storia dell’istituto. Si è riportato ai livelli di inizio millennio, ma tutto questo sta servendo finora a poco.

Lotta all’inflazione va male

Più la BCE rimarca la sua lotta all’inflazione e più esterna il suo senso di frustrazione per l’incapacità di ottenere risultati tangibili. Se a Mario Draghi era toccata in sorte l’incapacità durante il suo lungo mandato di otto anni di centrare la stabilità dei prezzi con tassi d’inflazione perennemente sotto il target, alla francese sta accadendo ben di peggio. Non riesce a riportare l’inflazione a quel 2% fissato dallo statuto. Con una differenza notevole rispetto al predecessore: nessuno si lamentò tra le famiglie che i prezzi crescessero poco prima del Covid. Al contrario, l’insoddisfazione per la crescita esplosiva di questi anni è elevatissima ovunque.

La frustrazione alla BCE è così tanta che ormai l’obiettivo dei suoi funzionari sta spostandosi dall’aumento dei tassi al portafoglio dei bond.

I “falchi” del Nord Europa credono che sia arrivato il momento di smantellare senza più tentennamenti l’ultimo residuato dell’era Draghi. Questi varò nel 2015 il famoso “Quantitative Easing” (QE), consistente nell’acquistare bond sovrani e corporate. Gli acquisti sono cessati dopo il giugno dello scorso anno. Da allora e fino al febbraio scorso, la BCE ha proseguito a reinvestire tutti i bond in scadenza. Da marzo fino alla fine di questo mese, i reinvestimenti saranno di 15 miliardi di euro al mese in meno rispetto alle scadenze. E da luglio, saranno azzerati.

Portafoglio bond tra QE e PEPP

Ancora a fine maggio, tuttavia, il portafoglio dei bond a bilancio con il QE ammontava a 3.200 miliardi di euro. Di questi, 2.706 miliardi riguardavano i titoli di stato. Rispetto alla fine del 2022 c’è stata una riduzione di soli 36 miliardi. In effetti, i BTp a bilancio sono rimasti sostanzialmente invariati (-1,6 miliardi), mentre sono diminuiti più decisamente i Bund (-16 miliardi) e gli Oat francesi (-13,5 miliardi). Questi numeri contribuiscono a spiegare le ragioni del calo dello spread in questi mesi.

Oltre al QE, la BCE ha a bilancio altri 1.675 miliardi di bond attraverso il PEPP. Il programma monetario fu varato in pandemia e rimase attivo fino al marzo 2022. Da allora e fino almeno a tutto il 2024, comunque, ci saranno i reinvestimenti dei bond in scadenza. Adesso, nel Nord Europa avanza l’idea di accelerare la riduzione del bilancio. Sarebbe un modo per ridurre la liquidità sui mercati e contenere la crescita dei prezzi al consumo. Le ipotesi in campo sono diverse. Si va dalla vendita vera e propria dei bond con il QE alla cessazione dei reinvestimenti con il PEPP.

Il problema è che queste misure avrebbero un impatto negativo sui bond nel Sud Europa, BTp in testa. La BCE possiede al momento 442 miliardi di titoli di stato italiani tramite il QE e altri 293 miliardi con il PEPP.

In tutto, ben 735 miliardi, oltre un quarto del nostro debito pubblico. C’è il rischio che lo spread torni a salire vertiginosamente nel caso in cui si mettesse a vendere i bond. Oltre alla minore domanda rispetto al passato, infatti, assisteremmo ad un incremento dell’offerta per i titoli del debito nell’unione monetaria.

BCE frustrata, rischio recessione avanza

Queste ipotesi, dicevamo, sono il frutto della frustrazione. La BCE è sotto accusa per avere prima minimizzato l’inflazione e dopo per non riuscire a contenerla. Dall’apice del 10,6% toccato ad ottobre, è scesa al 6,1% di maggio. Ma il dato “core”, al netto di energia e generi alimentari, vede solo un accenno di riduzione dal picco del 5,7% a marzo al 5,3% di maggio. Tutto questo mentre il prezzo del gas è arrivato a crollare dal record dei 340 euro per Mega-wattora di fine agosto ai 25 euro delle scorse settimane, di fatto normalizzandosi. E anche il petrolio è sceso in un range di prezzo sostenibile, per cui la persistente alta inflazione di questi mesi non ha più nulla a che vedere con le materie prime. Essa consegue proprio alla trasmissione dei rincari da una categoria di beni all’altra, da una categoria professionale all’altra.

Tutto ciò evidenzia quanto la BCE stia mostrandosi incapace di garantire la stabilità dei prezzi. Quel “costi quel che costi” pronunciato da Lagarde a proposito della necessità di portare avanti la lotta all’inflazione capta benissimo il sentimento del board. Fosse anche la recessione il costo da sostenere, nessun problema. Non la pensano chiaramente così i governi. L’inflazione è molto impopolare, ma una crisi economica non sarebbe da meno. Il peggio che potrebbe accadere, sarebbe un mix tra inflazione e recessione. Si sta verificando già in Germania, dove non a caso nei sondaggi avanzano a passo di marcia gli euro-scettici dell’AfD.

L’aumento dei tassi si fermerà verosimilmente tra fine luglio o al massimo a settembre.

Il costo del denaro salirà fino al picco del 4,25-4,50%. La vera domanda è per quanto tempo vi rimarrà. Il rischio recessione sta colpendo per il momento il Nord Europa, mentre il Sud se la starebbe cavando anche grazie alla migliorata domanda interna sostenuta, tra l’altro, dal boom del turismo. Ci starebbe poco una crisi ad attecchire anche nel Mediterraneo se l’attività produttiva in economie come Germania, Olanda e Francia ripiegasse troppo o troppo a lungo (a chi esporteremmo?) o se i rendimenti sovrani esplodessero per effetto delle vendite di bond da parte della BCE. Francoforte non vuole ripetere gli errori del 2011, ma la frustrazione è una cattiva consigliera.

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