Le notizie che arrivano dall’Asia sono poco confortanti in questo periodo dal punto di vista macroeconomico. Se la Cina rallenta e quest’anno rischia di crescere solamente del 3,5%, la Banca del Giappone è alle prese con una drammatica crisi del cambio. Lo yen è scivolato nelle ultime sedute ai nuovi minimi dal 1990 contro il dollaro. Ieri, scambiava fino a oltre 149, vicinissimo alla soglia psicologica di 150. E peggio ancora, tutto questo arriva dopo che già a settembre la Banca del Giappone era intervenuta sul mercato forex per complessivi 20 miliardi di dollari.

Secondo gli analisti, anche giovedì scorso, in occasione della pubblicazione del dato sull’inflazione USA, l’istituto avrebbe venduto valute straniere per 1.400 miliardi di yen, qualcosa come 9,3 miliardi di dollari. E il sollievo per il cambio è durato pochi minuti.

Arginare la crisi dello yen sembra impossibile per la Banca del Giappone con misure di così corto respiro. La Banca d’Inghilterra stessa non era riuscita a frenare la crisi della sterlina fintantoché il governo Truss non ha cambiato impostazione fiscale di 180 gradi. La premier ha dovuto licenziare il cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, sostituendolo con Jeremy Hunt dopo appena 40 giorni dall’insediamento. Quest’ultimo ha dovuto annunciare un aumento delle tasse, anziché il taglio promesso dal predecessore. All’apparenza, la mossa è servita per calmare i mercati.

Crisi yen strutturale

A Tokyo non sta accadendo nulla di simile. Lo yen cade perché tutte le principali banche centrali al mondo stanno alzando i tassi d’interesse per fermare la corsa dell’inflazione. La Banca del Giappone, invece, tiene i tassi negativi e continua a controllare la curva dei rendimenti, impedendo al bond decennale di andare oltre lo 0,25%. I capitali defluiscono dal Sol Levante a caccia di asset più remunerativi. Inevitabile il -24% accusato dal cambio quest’anno contro il dollaro.

La Banca del Giappone non può proseguire sulla strada degli interventi sul mercato forex.

Sarebbe come cercare di fermare un’onda con le mani. Dovrà capitolare prima o poi. In concreto, deve alzare i tassi d’interesse. Cosa che non fa, forse per il timore che ciò faccia andare a sbattere l’economia nipponica tra stagnazione e deflazione. Gli spazi di manovra fiscali si ridurrebbero enormemente con un costo del denaro più alto per il governo. Ricordiamoci che il debito pubblico qui vale il 260% del PIL, roba da fare impallidire l’Italia.

Banca del Giappone senza munizioni

Senza stimoli fiscali e monetari, sarebbe la fine dell’Abenomics, la politica economica messa in piedi sin dal 2012 dall’ex premier Shinzo Abe, ucciso per mano di un folle qualche mese fa durante un comizio elettorale. Essa poggiava su un mix di stimoli monetari e restrizioni fiscali. Un modo per stimolare la crescita economica e abbattere il debito. Non ha funzionato del tutto, se non limitatamente a un discreto rinvigorimento del PIL e dell’inflazione. Ma il rapporto debito/PIL ha continuato a salire, anche a causa della pandemia.

Il governatore Hruhiko Kuroda è fin troppo avveduto per capire che lo yen non può difenderlo smantellando le riserve valutarie. Minaccerebbe la stabilità finanziaria del paese. E se il cambio superasse la soglia psicologica di 150, le perdite verosimilmente accelererebbero. Bisogna agire subito, già in queste ore per impedirlo. E l’unica soluzione strutturale sarebbe l’annuncio a sorpresa di un rialzo dei tassi, anche minimo. Londra dimostra che i provvedimenti tampone funzionicchiano per ore o giorni al massimo. Dopodiché i fondamentali macro si riprendono la scena.

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