Se fosse una soap opera, sarebbe lunga ed estenuante quanto Beautiful. E, invece, parliamo di una vicenda finanziaria e industriale che si trascina nel nostro Paese da troppi anni. Non che ci tenga oramai con il fiato sospeso, altrimenti saremmo morti asfissiati da un pezzo. Ieri, le azioni di TIM in borsa hanno ripiegato a 26 centesimi. Nulla di drammatico, la perdita è stata intorno al 2,2%, pur in controtendenza rispetto a una seduta perlopiù leggermente in positivo. La sera prima, Bloomberg aveva lanciato la notizia, secondo cui Cassa depositi e prestiti (CDP) e il fondo australiano Macquarie sarebbero in procinto di ritirare l’offerta congiunta avanzata nelle settimane passate per rilevare la rete dell’ex monopolista telefonico.

Azioni TIM crollate dopo ingresso Vivendi

Questa offerta vale 19,3 miliardi di euro, di cui 17 miliardi in termini di deconsolidamento del debito. Si contrappone ad un’altra offerta, avanzata precedentemente dal fondo americano Kkr. Essa vale 19-21 miliardi, di cui 11 miliardi cash, 8 miliardi come deconsolidamento del debito e altri 2 miliardi arriverebbero in qualità di “earn-out” nel caso di fusione tra la rete di TIM in capo alla controllata NetCo e Open Fiber.

E’ perfettamente razionale che il mercato abbia reagito negativamente al rumor, vendendo le azioni TIM. Lasciata unica offerta in campo, quella di Kkr difficilmente potrà lievitare significativamente. E ciò, malgrado la compagnia abbia invitato entrambe le parti a migliorare le loro condizioni, altrimenti sarebbe incline a rifiutare le due offerte. La strada per Kkr sembrerebbe spianata, ma trattandosi di TIM è necessario andarci con i piedi di piombo. Anche perché dall’altro lato del tavolo c’è Vivendi, il colosso francese delle telecomunicazioni. Chissà quanto stia maledicendo la sua campagna acquisti in Italia. L’ingresso in Mediaset si rivelò rovinoso da ogni punto di vista e la compagnia sta svenando i suoi conti.

Al 31 dicembre scorso i francesi avevano svalutato la quota di quasi il 24% in TIM a un prezzo di 21,63 centesimi, valorizzandola complessivamente sui 787 milioni.

Peccato che ne avessero spesi 3,89 miliardi nel 2015, quando rastrellarono le azioni TIM ad un prezzo di carico medio di 1,07 euro. Da inizio anno, queste sono risalite del 20% fino ai 26 centesimi di ieri. A questi prezzi, la partecipazione di Vivendi varrebbe quasi 950 milioni, ancora in perdita di circa 2,94 miliardi, tuttavia. Poiché la perdita contabilizzata è di 3,89 miliardi, virtualmente il colosso parigino recupererebbe quasi 1 miliardo.

Rete TIM tra conflitti d’interesse e appetiti stranieri

Ma Vivendi non vuole disfarsi della rete, la gallina dalle uova d’oro di TIM, senza vendere cara la pelle. Non se ne farebbe quasi nulla di una compagnia telefonica priva dell’infrastruttura e che concorrerebbe sul mercato italiano alla pari con realtà come Vodafone, WindTre, Fastweb, ecc. Spinge, pertanto, per spuntare il prezzo più alto possibile dalla cessione della rete, che in un secondo momento sarebbe fusa con quella di Open Fiber. Anche perché Kkr è un fondo americano, che entrando sul mercato delle infrastrutture in Europa potrebbe allargarsi in futuro altrove a spese sempre di Vivendi.

Il governo italiano vedrebbe di migliore occhio Kkr per ragioni anche squisitamente geopolitiche. Meglio un americano che un francese in casa. Gli States non sono diretti competitor dell’industria tricolore, i transalpini sì. E poi i rapporti tra Roma e Parigi sono ai minimi termini in questa fase. Resta da capire perché CDP-Macquarie starebbero ritirando la loro offerta. La ragione sarebbe prettamente regolamentare. I due sono a capo di Open Fiber rispettivamente al 60% e al 40%. Allo stesso tempo, CDP è anche azionista di TIM al 9,81%. In questa operazione si ritrova in conflitto d’interesse nella sua qualità sia di venditore che acquirente. Ma, soprattutto, l’Antitrust europeo accenderebbe i fari sulla prospettiva che CDP detenga la rete sia di TIM che di Open Fiber, gli unici due operatori sul mercato domestico.

Obiettivo: rete unica in fibra

La rete unica è un obiettivo strategico che si trascina dai governi di centro-sinistra a guida Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, passando per i due governi di Giuseppe Conte e per quello capeggiato da Mario Draghi. Adesso, ci prova il centro-destra di Giorgia Meloni. I piani dell’attuale esecutivo erano altri. Fratelli d’Italia aveva avanzato, sia pur informalmente il piano Minerva. Sarebbe costato molto meno allo stato. Già sarebbe tantissimo se riuscisse dopo anni laddove i suoi numerosi predecessori hanno fallito. Non si tratta di un cruccio secondario. La rete unica serve a portare la fibra ottica anche nel comune più sperduto dello Stivale con l’obiettivo di ridurre, se non eliminare, il “digital divide”. A tale scopo viene in soccorso il PNRR con fondi stanziati ad hoc.

Cosa significa “digital divide”? Se aree periferiche la fibra non c’è, i suoi abitanti resteranno indietro rispetto ai connazionali che abitano in realtà urbane dove la fibra esiste. Le imprese abbandoneranno sempre più le prime e la ricchezza tenderà a concentrarsi in misura crescente in certe zone già ricche del Paese. Per evitare questo, serve abbattere da un lato i costi di posa della fibra e dall’altro i governi puntano chiaramente oramai a ricondurre la rete sotto il controllo diretto dello stato. In questo modo, otterrebbero anche l’altro risultato ambito: sottrarla al controllo di investitori stranieri, il cui operato sembra da troppo tempo più da competitor, anziché di azionisti intenti a sviluppare il mercato locale. Spagnoli prima (Telefonica) e francesi adesso sono parsi più attenti a limitare le occasioni di sviluppo di TIM, anziché assecondarle.

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