Mercoledì 6 luglio, il consiglio di amministrazione di TIM ha conferito l’incarico all’amministratore delegato Pietro Labriola di superare l’attuale integrazione verticale e ridurre l’indebitamento societario. In altre parole, il board ha dato via libera allo scorporo della rete dai servizi. Un obiettivo a cui il governo italiano punta da anni, reso complicato da raggiungere da molteplici questioni tecniche irrisolte, nonché dalla resistenza interna all’ex monopolista. L’azionista di maggioranza relativa Vivendi, al 23,75% del capitale, non è più apertamente contraria a tale separazione, ma pretende che l’infrastruttura sia valutata 31 miliardi di euro.

Stando alle attuali analisi indipendenti, si andrebbe fino a un massimo di 25 miliardi, anche se le stime più attendibili arriverebbero fino ai 21 miliardi.

Rete TIM, CDP regista dietro le quinte

Regista dell’operazione è Cassa depositi e prestiti (CDP), che detiene il 9,9% di TIM. La “longa manus” dello stato entrò nel capitale agli inizi del 2018 e da allora, avvalendosi del sostegno di fondi stranieri come Elliott Management, ha soffiato il controllo all’azionista francese. Il colosso delle telecomunicazioni della famiglia Arnault aveva acquistato le azioni TIM nel 2014 a un prezzo medio di 1,07 euro. Spese 3,9 miliardi di euro, a fronte dei quali oggi la sua quota vale in borsa non più di 1,3 miliardi. Tant’è che all’inizio di quest’anno la stessa Vivendi l’ha svalutata di 728 milioni, abbassando il prezzo di carico a 0,657 euro. Ma dopo il cda, le azioni TIM scambiavano ancora a 26 centesimi, meno della metà del valore ufficiale iscritto a bilancio dal socio di maggioranza.

Anche per cercare di recuperare parte delle perdite sin qui accusate – senza considerare la dura sconfitta subita con il mancato controllo di Mediaset nel 2016 – Vivendi non demorde sulla valutazione della rete TIM. Ma la sua controparte in questa difficile trattative sarà la stessa CDP, che oltre a possedere quasi il 10% della compagnia è anche al 60% di Open Fiber, che per il restante 40% appartiene al fondo australiano Macquarie dopo l’addio di Enel nel 2021.

E Open Fiber sarà con ogni probabilità la società con cui la rete TIM si fonderà dopo essere stata scorporata dai servizi. Va da sé che CDP tenga i piedi in due staffe: in qualità di azionista TIM dovrebbe favorire la massima valutazione della rete, ma da controllante di Open Fiber ha tutta la convenienza a tenerla bassa.

Scorporo per sviluppare rete e concorrenza

Le perizie indicano che alla rete TIM vadano assegnati 21.400 dipendenti sui 35.000 della compagnia oggi in Italia, a cui si aggiungono i 9.600 in Brasile. A fronte di un Margine Operativo Lordo (MOL) di 2,2 miliardi all’anno, la NetCo dovrebbe accollarsi 11 miliardi di debiti. Al 31 marzo scorso, l’indebitamento finanziario netto rettificato di tutta la compagnia si attestava a 22,6 miliardi. Pertanto, esso risulterebbe dimezzato dopo lo scorporo, mentre l’organico residuo subirà un taglio di 9.500 unità entro il 2030 a sole 5.500 unità attese. Da notare come della rete TIM farà parte anche Sparkle, la società che gestisce i cavi sottomarini attraverso i quali passano informazioni sensibili, tra cui le comunicazioni tra i governi.

Qual è l’intento del governo? Arrivare a un’unica rete in fibra per ammodernare l’infrastruttura in Italia, rendendola accessibile a tutte le famiglie e le imprese grazie alle economie di scala. Non meno importante, sarebbe sottratto a un investitore straniero il controllo di un asset strategico. Infine, vi sarebbe una concorrenza vera tra le società di telefonia fissa e mobile. Finora TIM ha giocato su un piano impari per i suoi concorrenti, detenendo l’accesso alla rete e, di fatto, finendo per influire sulle tariffe di tutto il mercato. Con lo scorporo ci sarebbe una liberalizzazione reale del mercato delle telecomunicazioni a oltre un quarto di secolo dalla privatizzazione dell’ex SIP.

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