C’è qualcosa di storico nei risultati delle elezioni politiche di ieri. Per la prima volta dal 1946 arriva primo un partito di destra e non di ispirazione centrista. Per la prima volta, poi, vince una donna, che quasi certamente sarà nominata premier entro poche settimane. Se aggiungiamo che quel che resta del centro-sinistra raccoglie poco più di un quarto dei consensi, abbiamo già un quadro “rivoluzionario” sulla fisionomia della prossima legislatura. Su tutti si staglia la figura di Giorgia Meloni, che è anche l’unica che possa considerarsi seriamente vincente dopo la chiusura dei seggi.

Con il suo oltre 26% dei voti, non solo conquista il primato sulla scena politica nazionale, ma stacca nettamente tutti gli avversari e gli alleati. Il PD resta sotto la soglia del 20% e arretra persino di qualcosa rispetto ai risultati del 2018.

Risultati elezioni disastro per PD di Letta

Notte fonda e amara per Enrico Letta, la cui segreteria è finita. Troppi gli errori strategici e di comunicazione in questa campagna elettorale. Ha dimostrato di non avere la stoffa del leader, di essere anche poco lucido riguardo alla linea del partito da impartire. Si è impiccato sulla figura di Mario Draghi, quando l’Italia andava in tutt’altra direzione. A scrutinio ultimato, possiamo affermare che ben i tre quarti degli italiani hanno scelto partiti apertamente contrari o non innamorati dell’Agenda Draghi.

In effetti, se Enrico piange, Carlo e Matteo non ridono. Calenda e Renzi avevano battezzato il Terzo Polo furbescamente per restare in Parlamento senza allearsi col PD. Obiettivo raggiunto. Per il resto, poca roba. La formazione ottiene meno dell’8% e meno di Forza Italia, che certo non scoppia di salute con un Silvio Berlusconi sostanzialmente a fine carriera. I suoi leader possono consolarsi con il risultato a doppia cifra nei quartieri bene di Milano. Avevano puntato tutto sull’Agenda Draghi, ma il popolo dei cosiddetti “moderati” non ha risposto alla chiamata.

Salvini piange, Conte sorride

E di certo da ieri sera non ride più neppure Matteo Salvini. Aveva trionfato con il 34% per la sua Lega alle elezioni europee del 2019. Di lì in avanti, un errore dietro l’altro. Il Papeete segna l’inizio di gaffe e calcoli sballati, che gli costano in sequenza il posto di ministro, il ruolo di king maker del governo fino alla leadership del centro-destra. Patetica la performance esibita durante l’elezione per il presidente della Repubblica. Tantissimo fumo e pochissima sostanza. Il suo nome è risultato bruciato presso tutte le cancellerie straniere. Esiziale la vicinanza a Vladimir Putin. La sua segreteria nel Carroccio sembra vacillare vistosamente.

Risorge clamorosamente Giuseppe Conte, che sembrava defunto politicamente con la scissione nel Movimento 5 Stelle ad opera di Luigi Di Maio. Invece, il ragazzo di Pomigliano D’Arco è rimasto fuori dal Parlamento, mentre i “contiani” ottengono il primo posto al Sud, sfiorando il 40% dei consensi a Napoli. La sua fortuna è stato il divorzio con il PD di Letta, voluto a dire il vero da quest’ultimo. Perché i democratici sono Re Mida all’incontrario: tutto ciò che toccano, perde.

Conte dimostra un camaleontismo spregiudicato, riuscendo a passare da destra a sinistra, tornare a destra e ripuntare a sinistra con una nonchalance invidiabile. Ha puntato tutte le sue (poche) carte sul reddito di cittadinanza e ha vinto la scommessa. Con il 15%, mantiene il terzo posto e, soprattutto, chiunque nel centro-sinistra volesse riaprire le danze sul “campo largo”, dovrebbe fare i conti con lui in qualità di protagonista.

La tecnocrazia si mangia anche Di Maio

Infine, quel che emerge dai risultati elettorali di ieri è la sconfitta senza se e senza ma della linea di pensiero inciucista e incline alla tecnocrazia molto in voga nei palazzi del potere a Roma.

Hanno perso tutti coloro che pensano che le maggioranze si fanno e si disfano nel chiuso di una stanza e che la politica debba cedere il passo a presunti salvatori tecnocrati a ogni piè sospinto. Il PD si mastica l’ennesimo segretario in pochi anni, ma non riesce a prendere atto di questa verità elementare. E chi pensa di risolvere i problemi al Nazareno stringendo alleanze con il diavolo e l’acqua santa, sarà parte del problema ormai pluridecennale che affligge la sinistra italiana: assenza di contenuti e abbandono delle classi meno abbienti per abbracciare tecnocrazia, finanza ed europeismo acritico.

Ingloriosa la fine di Di Maio. Coccolato da gran parte dei media come un nuovo “Andreotti” (che da lassù non starà perdonando a nessuno tale comparazione), lodato per la sua improvvisa scoperta della moderazione dopo anni di estremismo demagogico sfruttato per scalare il potere, fonda due partiti nel giro di un paio di mesi. Resta appiedato sotto elezioni e si allea con il PD – quello di Bibbiano! – riuscendo nell’impresa disastrosa di concludere un accordo a perdere per entrambe le parti. A lui non scatta neppure il proprio seggio, presunto “blindato”, mentre Letta di Impegno Civico non se n’è fatto nulla, dato che la formazione è rimasta sotto l’1% e non distribuirà, quindi, seggi a favore degli alleati.

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