Soltanto pochi giorni fa l’ennesima risoluzione delle Nazioni Unite per chiedere la fine del bloqueo, l’embargo degli Stati Uniti contro Cuba. Che la situazione economica sia gravissima, lo dimostra negli ultimi anni il boom di profughi che fuggono dall’isola per dirigersi o direttamente verso la Florida con i barconi o passando prima per altri paesi dell’America Latina. La crisi a Cuba è serissima e lo stanno riconoscendo ufficialmente i ministri del regime comunista.

Crisi a Cuba, numeri choc

Uno dopo l’altro si sono presentati nei giorni scorsi in televisione per spiegare quali siano le condizioni reali.

E i numeri che hanno snocciolato sono risultati essere persino peggiori di quelli che pensavamo. Rispetto al 2018, la produzione di cibo, l’offerta di farmaci e i trasporti sono crollati del 50%. La produzione di carne di maiale, riso e fagioli è letteralmente precipitata dell’80% e quella di uova del 50%, ha dichiarato il ministro dell’Agricoltura, Ydael Jesus Perez.

Dopo i Castro resta il regime comunista

Lo stesso ha ammesso che il paese starebbe riuscendo ad acquistare dall’estero solamente il 40% del carburante, il 4% dei fertilizzanti e il 20% del bestiame necessari. Non ci sono soldi in cassa, le riserve valutarie sono praticamente ridotte all’osso. La stessa industria opera l 35% della sua capacità. E il ministro dei Trasporti, Eduardo Rodriguez, fa presente che a L’Avana ci fossero 2.500 autobus prima che crollasse l’Unione Sovietica, quattro anni fa solo 600 e oggi appena 300.

Il male di Cuba si chiama dirigismo economico. Con la morte di Fidel Castro e l’uscita di scena del fratello Raul, si sperava in una conversione del modello economico verso una qualche forma di mercato, pur a forte impronta statale. Ma il regime non vuole adottare il modello cinese, rimasto fortemente legato alla mentalità comunista di stampo sovietico. In teoria, negli ultimi anni ha varato alcune liberalizzazioni, consentendo l’esercizio di numerosi lavori nel settore privato.

Nei fatti, queste leggi sono rimaste lettera morta.

Pesanti ripercussioni da riforma monetaria

Dall’1 gennaio del 2021 entrava in vigore la riforma monetaria con la scomparsa del peso convertibile (CUC) e la svalutazione del peso cubano (CUP) di circa il 96%. Non è servito a nulla. Pensate che si è passati da un rapporto di 1 CUP/CUC contro 1 dollaro del 2020 a 1 dollaro contro 24 CUP. E oggi, il tasso di cambio ufficiale si aggira a 110 contro 1 dollaro, cioè la banca centrale ha provveduto a svalutare ulteriormente la moneta nazionale di un altro 80%. Peccato che al mercato nero 1 dollaro scambi contro 200 CUP.

A seguito della riforma, che era necessaria per evitare il prosciugamento delle riserve valutarie, l’inflazione è esplosa. Ancora oggi viaggia tra il 35% e il 40%. Gli analisti indipendenti la stimano su valori ben più alti. Perché la svalutazione non ha funzionato? Da un lato Cuba rende più costoso importare prodotti dall’estero, dall’altro non consente ai suoi cittadini di produrre in loco. Dunque, i dollari in cassa non aumentano, anzi diminuiscono per l’aumento dei costi delle importazioni. E non essendoci una compensazione con l’aumento della produzione interna, l’unico risultato è che l’offerta di beni e servizi si riduce e i prezzi esplodono.

Turismo non allevia la crisi a Cuba

La ripresa del turismo da quest’anno avrebbe dovuto avviare la fine della crisi a Cuba. Ma le previsioni sono andate deluse e tra l’altro a patire è stata anche la qualità dei servizi offerti ai visitatori stranieri. I blackout sono frequenti nella capitale, figuriamoci sul resto dell’isola. I trasporti pubblici sono carenti per ammissione dello stesso governo. E dall’amministrazione Biden non è arrivato l’aiuto sperato con il cambio di rotta rispetto agli anni di Donald Trump alla Casa Bianca.

Cuba è e rimane un paese reietto, persino mentre Washington allenta l’embargo contro il sanguinario regime venezuelano di Nicolas Maduro.

[email protected]