Sono stati due gli scontenti di ieri per i numeri positivi sull’economia americana. Uno è il presidente Donald Trump e l’altro il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell. E può sembrare un paradosso, dato che quando le cose vanno bene, i responsabili della politica economica non possono che andarne fieri o almeno rallegrarsi. Cionondimeno le cose stanno diversamente negli Stati Uniti. I numeri del Bureau of Labour Statistics ci consegnano un mercato del lavoro non agricolo ancora solido a giugno. Eccoli:
- +147.000 posti
- +0,2% crescita mensile degli stipendi
- +3,7% crescita annuale degli stipendi
- 4,1% tasso di disoccupazione
- 233.000 nuove richieste settimanali di sussidi
Economia americana resta solida
Le aspettative erano per la creazione di 110.000 posti di lavoro e un tasso di disoccupazione in lieve crescita al 4,3%.
E la crescita degli stipendi orari era stata stimata dagli analisti dello 0,3% rispetto a maggio. Nel complesso, i dati ci dicono che l’economia americana continua a creare occupazione, mentre la disoccupazione resta bassa e la crescita salariale relativamente contenuta. Parte del boom inatteso si deve ai 73.000 posti di lavoro nel pubblico impiego creati durante il mese, anche se sul piano federale si registrano -7.000 posti per i licenziamenti del DOGE sotto Elon Musk.
Scontro tra Trump e Powell
Questi numeri dovrebbero far sorridere Trump. Altro che recessione! Vero è che il Pil USA è diminuito nel primo trimestre, anticipando gli effetti dei dazi. Ma l’economia americana appare solida. La borsa ha segnato nuovi massimi storici. Tutto sembra filare liscio. Invece, no. Trump vuole che Powell torni a tagliare i tassi di interesse, fermi da novembre al 4,50%. E per ottenerlo, ha bisogno che i dati macro inviino qualche segnale di allarme.
Powell preferirebbe che ciò accadesse, così da poter cedere alle fortissime pressioni pubbliche della Casa Bianca senza addossarsi la responsabilità di un taglio scriteriato.
Entrambi dopo ieri sono meno contenti. Il primo vede allontanarsi le probabilità di un taglio a luglio, stimate dal mercato a meno del 5% dopo i dati sul lavoro. E il secondo deve mettere in conto nuove reprimende tramite social di Trump e minacce di licenziamento. L’unico appiglio per entrambi – ma è davvero poca roba – il fatto che gli stipendi stiano crescendo a ritmi moderati e rallentando un po’.
Taglio dei tassi obiettivo in sé
Sapete qual è il paradosso di tutta questa vicenda? Trump vuole il taglio dei tassi per rinvigorire l’economia americana, ma non lo può ottenere perché questa va bene. Come dire che un paziente se la prende con il dottore che non gli prescrive un farmaco per stare meglio, in quanto la sua salute è già considerata buona. Il taglio dei tassi sembra essere diventato un obiettivo in sé, quasi un feticcio ideologico slegato dalla realtà dei fatti. Altro paradosso: senza i dazi trumpiani Powell ha affermato che avrebbe maggiori probabilità di tornare a tagliare i tassi.
In effetti, sta avvenendo quello che a Trump era stato spiegato sin dalla campagna elettorale dai suoi stessi uomini: poiché i dazi aumentano i costi delle importazioni, rischiano di accentuare l’inflazione. E la FED ha bisogno che l’inflazione scenda per tagliare i tassi, non che salga.
Inoltre, l’indebolimento del dollaro dai massimi di gennaio (-12%) contro le altre valute mondiali aumenta il rischio inflazione, rendendo le importazioni ancora più costose per le famiglie americane.
Trump teme crisi per economia americana sotto elezioni
A meno di credere che il presidente americano sia preda di una logica irrazionale, la verità è che egli preferirebbe una recessione breve e immediata dell’economia americana. In questo modo, vuole evitare il rischio di una crisi sotto elezioni per il rinnovo di gran parte del Congresso a metà mandato, cioè nel novembre dell’anno prossimo. Tuttavia, proprio questo battibecco sui tassi può fungere da detonatore della crisi, che addebiterebbe eventualmente alla presunta incapacità di Powell di gestire la politica monetaria in favore degli americani. Su una cosa sembra avere ragione: la FED tagliò presto e in misura eccessiva i tassi nel settembre scorso. I rendimenti sono andati in direzione opposta sin da subito, segno evidente che l’operazione sotto elezioni sia avvenuta a seguito di un calcolo sbagliato o per ragioni politiche.