Una misura spot del governo nella legge di Bilancio è senza dubbio il taglio dell’IRPEF al ceto medio. Attorno a questo provvedimento, che ritocca l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, i punti di vista tra maggioranza e opposizione non convergono. La manovra, secondo l’esecutivo, guarda al ceto medio e prevede un sostegno a una categoria di contribuenti da anni bistrattata. Le opposizioni, invece, partendo dai dati sull’aumento delle entrate fiscali e dai rilievi di ISTAT e Bankitalia, parlano di un governo Meloni che aumenta le tasse e di un taglio IRPEF che avvantaggia i ricchi.
Ma come funziona davvero il taglio dell’IRPEF al ceto medio? E qual è la verità dietro questa misura?
La verità sul taglio IRPEF ceto medio, le cifre, i numeri e perché si polemizza tanto
Non bisogna guardare solo alla legge di Bilancio di quest’anno, perché sarebbe come guardare un film dal secondo tempo o una partita iniziata a metà.
La maggioranza chiede che la nuova manovra sia letta in continuità con le precedenti e in funzione delle successive, nell’ottica di un programma elettorale da completare manovra dopo manovra entro fine legislatura.
La modifica dell’IRPEF al ceto medio si inserisce infatti nella riforma dell’imposta iniziata negli anni scorsi. Il primo passo fu l’eliminazione di uno dei tradizionali quattro scaglioni IRPEF, unificando nel primo i contribuenti che prima rientravano nel secondo.
Il passaggio da quattro a tre scaglioni fu un intervento a favore di chi aveva redditi tra i 15.000 e i 28.000 euro, ai quali fu concesso di pagare il 23% di IRPEF, come chi aveva redditi inferiori a 15.000 euro ma superiori alla no tax area, dove l’imposta non si paga.
In precedenza, quella fascia versava il 25% di IRPEF: la riduzione al 23% fu dunque un taglio che favorì i redditi più bassi.
Ecco il nuovo taglio dell’IRPEF del governo Meloni
Oggi è il nuovo secondo scaglione – quello nato dalla precedente riforma – a essere ritoccato. Si tratta della fascia di contribuenti che appartengono al cosiddetto ceto medio, cioè con redditi compresi tra 28.000 e 50.000 euro.
In questo caso, il governo ha deciso di ridurre l’aliquota dal 35% al 33%, quindi un taglio del 2%.
Naturalmente, più alto è il reddito, maggiore sarà il risparmio, poiché cresce la base imponibile su cui si applica la riduzione. È proprio su questo punto che nascono le polemiche: il 2% in meno nella fascia 28.000-50.000 euro produce un vantaggio massimo di circa 440 euro l’anno. Il beneficio aumenta con il reddito e si esprime in misura piena per chi guadagna fino a 50.000 euro, mantenendosi costante fino a 199.999 euro.
Oltre i 200.000 euro, invece, per effetto di meccanismi di detrazione progressiva, il vantaggio si riduce fino ad azzerarsi.
Le opposizioni, analizzando questi dati, sostengono che il provvedimento favorisca i redditi più alti, e non senza ragioni. Tuttavia, è altrettanto vero che più il reddito è alto, più tasse si versano.
Più reddito, più tasse: la differenza è notevole
Il paragone più ricorrente riguarda chi guadagna 30.000 euro rispetto a chi dichiara 200.000 euro.
Nel primo caso, il taglio IRPEF comporta un vantaggio modesto, pari a circa 40 euro l’anno. Nel secondo, invece, si raggiunge il massimo beneficio di 440 euro.
Il sistema IRPEF con tre scaglioni funziona in modo progressivo:
- fino a 28.000 euro si paga il 23%;
- tra 28.000 e 50.000 euro, il 33% (invece del precedente 35%);
- oltre 50.000 euro, il 43%.
In pratica, chi guadagna 30.000 euro paga 6.440 euro di imposte sui primi 28.000 euro (al 23%) e 660 euro sulla parte eccedente (2.000 euro al 33%), per un totale di circa 7.100 euro di IRPEF.
Chi invece percepisce 200.000 euro paga 6.440 euro sui primi 28.000, 7.260 euro fino a 50.000, e 64.500 euro sui redditi da 50.000 a 200.000 euro, per un totale di circa 78.200 euro di imposte.
In sostanza, il contribuente con redditi da 200.000 euro versa circa il 40% del suo reddito all’Erario, mentre chi guadagna 30.000 euro ne versa circa il 23%.
Il taglio IRPEF, quindi, offre vantaggi proporzionali ma non eguali, e se da un lato alleggerisce il carico fiscale del ceto medio, dall’altro accentua la distanza percepita tra redditi bassi e redditi alti.