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Oggi: 05 Dic, 2025

L’indipendenza monetaria è finita con il sindaco socialista a New York

L'era dell'indipendenza monetaria è finita e siamo già entrati in quella della dominanza fiscale, con contraccolpi per tutti noi.
4 settimane fa
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Finita l'indipendenza monetaria
Finita l'indipendenza monetaria © Licenza Creative Commons

Gli Stati Uniti sono entrati nel 37-esimo giorno di “shutdown”, la chiusura parziale delle attività federali, il più lungo della loro storia. Ennesima conferma di una forte polarizzazione politica con implicazioni non secondarie sui conti pubblici americani. Da un lato abbiamo una destra che taglia le tasse in deficit, dall’altro una sinistra che chiede di aumentare la spesa pubblica. Nessuna delle due vuole che qualcuno paghi il conto. Di conseguenza, i debiti non fanno che salire. Hanno superato la soglia dei 38.000 miliardi di dollari. L’indipendenza monetaria, come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, è nei fatti finita per salvare il tutto.

Anche New York diventa socialista

Ieri, un altro tassello si è aggiunto al puzzle: la vittoria di Zohran Mamdani a sindaco di New York. Un socialista che guida la città simbolo del capitalismo mondiale, già di per sé fa impressione. Difficile che riuscirà a realizzare un programma imbastito di promesse come bus e asili nido gratis, supermercati comunali (esperimento già fallito nella conservatrice Florida), blocco degli affitti e aumento delle tasse sui ricchi. In parte, perché rischierebbe la fuga dei capitali e perlopiù perché queste decisioni dipendono dallo stato di New York o da board indipendenti.

Indipendenza monetaria limite al lassismo fiscale

Tralasciando il dibattito sulla realizzabilità di queste proposte, il punto che emerge anche da questa vittoria è che i cittadini chiedono più tutele. A destra come a sinistra. Cosa ancora più importante, nessuno più accetta di fare sacrifici nel nome di un interesse di lungo periodo o “superiore”. Tagliare la spesa pubblica diventa impossibile, così come aumentare le tasse.

L’unica soluzione è continuare a fare debiti. Tuttavia, questa è la ricetta per il disastro. Ad un certo punto, il banco salta.

Vero, a meno di non mettere in forse proprio l’indipendenza monetaria delle banche centrali. Queste hanno il compito di garantire la stabilità dei prezzi, vale a dire di tenere sotto controllo l’inflazione. E per farlo hanno un modo semplice: manovrare i tassi di interesse. Li alzano quando l’inflazione sale e li abbassano quando scende. Il debito pubblico pesa sui bilanci in relazione ai tassi reali. I governi da sempre desiderano che questi siano bassi, se non negativi. In questo modo, possono comprimere la spesa per interessi e giovarsi di qualche margine di manovra fiscale in più.

Si torna alla dominanza fiscale

Il presidente Donald Trump invoca con da mesi con estrema veemenza il taglio dei tassi da parte della Federal Reserve. Lo aveva fatto anche durante il primo mandato. Su questo punto non transige, anche a costo di licenziare il governatore Jerome Powell. Tassi più bassi consentono al suo governo di rifinanziare i debiti e farne di altri a costi contenuti. Almeno in teoria, dato che i mercati reagiscono di conseguenza e pretendono rendimenti nominali più alti per le accresciute aspettative d’inflazione.

L’affievolimento dell’indipendenza monetaria non è un inedito. Accadde negli anni Settanta, quando i governi ottennero che le banche centrali non reagissero al boom dell’inflazione con le due crisi petrolifere, se non parzialmente. Furono gli anni della dominanza fiscale: i deficit di bilancio crebbero senza (temporaneamente) destabilizzare i conti pubblici, grazie all’aumento del Pil nominale.

La ricreazione finì agli inizi degli anni Ottanta, quando gli USA di Ronald Reagan e il Regno Unito di Margaret Thatcher vollero sconfiggere l’alta inflazione a colpi di tassi.

Giappone modello involontario

Da allora le banche centrali si riappropriarono dell’indipendenza monetaria perduta. Essa è stata codificata in regole condivise nelle società per tutti questi decenni. Ha fatto eccezione il Giappone, che ha lottato dagli inizi degli anni Novanta contro la stagnazione e successivamente contro la deflazione. La sua banca centrale ha tenuto i tassi azzerati e ha monetizzato il debito pubblico, esploso fin sopra il 250% del Pil. E Tokyo sta diventando un riferimento per l’Occidente, senza che abbiamo il coraggio di ammetterlo a noi stessi.

Piano piano abbiamo iniziato a picconare l’indipendenza monetaria sin dalla crisi del 2008-’09, quando le banche centrali acquistarono quantità massicce di bond per comprimerne i rendimenti e iniettare liquidità sui mercati. Da allora la politica monetaria è stata asservita a quella fiscale. L’esperimento si è interrotto dopo la pandemia con la ripresa dell’inflazione. Ora che la geopolitica spinge persino la Germania a fare debiti, rispunta la necessità di salvare i conti pubblici allentando la lotta all’inflazione.

Fine dell’indipendenza monetaria non è pasto gratis

La risalita dei rendimenti a lungo termine negli ultimi mesi risente di questo clima. Gli investitori hanno mangiato la foglia. Sanno che nei prossimi anni l’inflazione non sarà attorno ai target, bensì più elevata. In questo modo, l’aumento dei debiti non si rifletterà sui bilanci tramite un aumento proporzionale del peso degli interessi. Tutto questo implica che a pagare saranno consumatori, lavoratori e risparmiatori. Ricordatevi che i pasti gratis non esistono. Perdita più veloce del potere di acquisto in cambio di maggiore crescita economica. Finché le opinioni pubbliche lo consentiranno.

giuseppe.timpone@investireoggi.it 

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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