Pur essendo sceso dai massimi storici toccati nelle scorse settimane, il prezzo dell’oro resta elevatissimo ed è una buona notizia per chi lo possiede tra le riserve come la Banca d’Italia. Ammontano a 2.452 tonnellate, dietro solo a Stati Uniti (8.133) e Germania (3.351) nel mondo. Solamente per il 45% risultano effettivamente detenute a Roma, mentre per ragioni di sicurezza (dopo il secondo conflitto mondiale) il 43,29% è depositato negli USA, il 6,09% in Svizzera e i, 5,76% nel Regno Unito. Le banche centrali asiatiche accumulano lingotti da anni, così come in Europa lo sta stanno facendo quelle di Polonia e Ungheria. La prima ha acquistato quasi 394 tonnellate in 7 anni, salendo a ridosso delle 500 tonnellate.
La seconda è passata nello stesso periodo da 3 a 110 tonnellate.
Boom nel rapporto con debito pubblico
Le riserve di oro tendono a crescere in volume quando si registrano surplus commerciali e delle partite correnti. L’afflusso netto di valuta estera offre alla banca centrale l’opportunità di diversificare le detenzioni, acquistando sia asset di natura finanziaria e sia metallo. Pur restando invariate da molti anni, però, il loro controvalore di mercato è esploso anche tra le principali banche centrali occidentali. Ai prezzi attuali, i lingotti di Palazzo Koch valgono poco meno di 230 miliardi di euro. Pensate che 10 anni fa valevano 83 miliardi e 20 anni fa appena 31 miliardi.
Garanzia indiretta
Nell’arco di due decenni, quindi, le riserve di oro di Bankitalia sono aumentate in valore di 7 volte. Dicevamo, è una buona notizia per il sistema Italia. Le riserve sono attività patrimoniali. E’ come dire che una famiglia abbia un portafoglio d’investimenti che oggi vale 7 volte in più rispetto al 2005. Qual è il principale vantaggio? Può fungere da garanzia per gli eventuali prestiti e mutui richiesti in banca. Ed è un po’ così per lo stato italiano.
Non che il Tesoro impegni formalmente e neppure ufficiosamente le riserve di oro per indebitarsi. Il ragionamento è molto più indiretto e sottile. I mercati sanno i valori in gioco e prendono nota.
Guardiamo a qualche numero. A metà del 2005 il debito italiano si attestava a poco più di 1.540 miliardi, per cui le riserve di oro incidevano per il 2% del valore dello stock. Un decennio più tardi, il primo superava i 2.200 miliardi contro gli 83 miliardi dei lingotti. L’incidenza quasi raddoppiava al 3,8%. E stando ai dati di marzo, il debito ha segnato l’ennesimo record a 3.034 miliardi con un’incidenza raddoppiata in un decennio al 7,5%.
Riserve di oro garanzia insufficiente
Nello scenario più cupo di un default, i mercati avrebbero la ragionevole garanzia che il 7-8% del debito sarebbe ripagato vendendo letteralmente i gioielli dello stato. Una percentuale quasi quadrupla rispetto a un ventennio fa. Eppure c’è da dire che allora i rating assegnati dalle agenzie internazionali ai nostri BTp erano nettamente migliori. A conferma che le riserve di oro non siano considerate determinanti per valutare l’affidabilità creditizia di uno stato. In primis, perché restano relativamente contenute in valore.
Secondo, per la non facile liquidabilità dell’asset. Terzo, perché per fortuna lo scenario del fallimento è considerato statisticamente molto improbabile.