Se c’è un dato che risalta sopra ogni altro in queste elezioni politiche è senz’altro la scomparsa del centro politico italiano, che con la nascita della Repubblica nel 1946 era stato sempre perno su cui hanno ruotato ogni governo e le istituzioni nazionali, nonché locali. Stavolta, invece, i due vincitori – Movimento 5 Stelle e Lega – sono l’espressione del rifiuto del centro quale forma ostentata di moderazione nei toni e nelle proposte. E le formazioni che al centro s’ispirano, da un lato Forza Italia e dall’altro il PD, sono le due grandi sconfitte del voto del 4 marzo.
Il centro in Italia è stato inteso da decenni non più come un’area politica con contenuti, quanto come palestra in cui allenare chiunque ambisca a posizioni di rilievo sul piano istituzionale. Anche dopo la fase anomala della Dc come partito-sistema, nella stessa Seconda Repubblica non era praticamente diventato possibile aspirare in maniera credibile a posizioni apicali di governo, se non da formazioni centriste. Vi fu la breve parentesi del post-comunista Massimo D’Alema tra il 1998 e il 2000, ma anche in quel caso determinante si rese l’imprimatur del centro della coalizione dell’Ulivo, pur minoritaria nei numeri. Si disse che fosse l’effetto del maggioritario a rendere sempre più centrista il panorama politico in un’Italia che centrista lo era stata già nel mezzo secolo precedente.
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Senonché, il centro pigliatutto si è mostrato inconsistente nei contenuti e inconcludente nell’azione di governo, incapace da sin troppi anni di offrire risposte al montante malcontento generale e trasversale a ogni tipo di elettorato e classe sociale.
Centro inconcludente è stato punito
Per reagire a una vacuità valoriale evidente e che è degenerata nel trasformismo più becero, il centro ha pensato bene di etichettare come “populismo” e estremismo per dipingere tutto ciò che gli fosse estraneo, ostentando ottusamente una vicinanza o persino una sovrapposizione con l’establishment inter-nazionale, che nelle intenzioni delle istituzioni avrebbe dovuto serrare le file tra gli elettori e spingerli a rifiutare alternative programmatiche per paura del salto nel buio. Avrebbe funzionato certamente fino a pochi anni fa, ma quello che Quirinale, Palazzo Chigi e Parlamento non hanno compreso è che il livello di esasperazione per la loro inconcludenza è diventato così elevato, da spingere milioni di italiani ex “moderati” a voltare le spalle al centro per cercare risposte in formazioni più radicali.
Il fattore credibilità ha giocato un ruolo determinante per affossare alle urne i partiti moderati. E’ stato sotto la loro guida che l’Italia è sprofondata in una drammatica crisi economica e finanziaria; sotto di loro, la ripresa è stata ad oggi la più debole nel mondo occidentale e sempre sotto di loro il debito pubblico ha continuato ad esplodere, così come corruzione, malcostume e insicurezza. E proprio con il centro al governo l’Italia non ha goduto di alcun rispetto sul piano internazionale, trattata come potenza di seconda o terza categoria persino da alleati non più grandi di noi sul piano geo-politico.
Messi insieme, Forza Italia e PD hanno ottenuto meno di un terzo dei consensi. Parlare di disastro è poco, specie se teniamo conto che nemmeno entrambe le formazioni siano al loro interno del tutto centriste. M5S, Lega e Fratelli d’Italia, invece, insieme hanno riportato una maggioranza netta sul piano delle percentuali (oltre il 54%) e ancora di più dei numeri in Parlamento. Proprio questo dato renderà il centro più debole di quanto si pensi politicamente, perché sotto ricatto. Se un Matteo Salvini non ottenesse dall’alleato Silvio Berlusconi il rispetto e il riconoscimento dovuti, potrebbe sempre optare per fare comunella con i grillini e varare un governo con loro, prospettiva che terrorizzerebbe gli azzurri e il PD.
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Il centro non ha avuto un modello economico
Né quel che rimane del centro può contrapporre ai vincitori un modello economico alternativo e di successo: l’Italia sotto i moderati ha una delle più alte incidenze della spesa pubblica sul pil, il terzo debito più alto al mondo in relazione al pil, un basso grado di attrazione per gli investimenti stranieri, una bassa occupazione e una sottoccupazione diffusa al sud, oltre che tassazione e burocrazia senza eguali presso le altre economie occidentali, se non in Grecia e casi simili. Per non parlare di come il centro abbia inteso risolvere i mali del sud, ovvero con assunzioni nel pubblico impiego a pioggia e una politica dell’assistenzialismo gestita da enti locali spreconi e spesso molto corrotti. Insomma, il famigerato centro di liberale ha avuto poco e di clientelare sin troppo.
Perché la ripresa economica non entra in campagna elettorale
Non esistono più roccheforti elettorali in favore di rossi o azzurri e questo è un bene per la qualità della democrazia. La Sicilia, granaio di voti per il centro-destra, si è tinta tutta di giallo, mentre la “sovietica” Emilia-Romagna si è colorata clamorosamente di azzurro, insieme a un grosso pezzo della vicina Toscana. D’oggi in avanti, la qualità dei candidati paracadutati in questo o quel seggio ricoprirà un’importanza maggiore e i fallimenti o i successi amministrativi pure. Il centro ha finito di esistere come area in cui ripararsi alla ricerca di una poltrona sicura di peso. Svuotato di ogni significato, se non quello di essere semplicemente l’area di chi vorrebbe governare senza alcuna idea e idealità, rischia l’estinzione definitiva, se alle prossime amministrative gli elettori dovessero proseguire la china presa il 4 marzo. Non basterà fare appello contro la solita deriva populista, specie se si hanno a fianco personaggi con cui non sarebbe opportuno prendersi nemmeno un caffè. I tempi del trasformismo fine a sé stesso forse sono finiti.