I rendimenti italiani salgono più che altrove, se è vero che lo spread tra BTp e Bund a 10 anni è salito in area 200 punti base. Il mercato pretende ormai poco meno del 3% per comprare i nostri titoli di stato decennali, a fronte dell’1% richiesto alla Germania sui suoi bond. Gli investitori stanno scontando già il rialzo dei tassi BCE, che verosimilmente ci sarà a partire dal mese di luglio. Stanno scartando i titoli più rischiosi, il cui appeal si riduce con la fine dell’era dei tassi negativi.

Già da aprile i BTp hanno dovuto fare a meno degli acquisti BCE con il PEPP, i quali erano stati mediamente di quasi 12 miliardi al mese tra marzo 2020 e fine marzo di quest’anno. Da luglio quasi certamente saranno azzerati anche gli acquisti netti condotti con il “quantitative easing”. In media, dalla sua attivazione nel marzo 2015 hanno sfiorato i 6 miliardi al mese.

Si accende l’allarme spread

Tra qualche mese, insomma, il Tesoro dovrà confrontarsi esclusivamente con il mercato. E si teme il peggio, specie quando davvero la BCE porterà i tassi sopra lo zero. I timori sulla sostenibilità del debito pubblico italiano, salito al 150% del PIL, si fanno seri. A Francoforte si studiano meccanismi d’intervento per stanare sul nascere eventuali ondate speculative ai danni dei nostri bond. Un piano automatico contro lo spread, di cui si discute da almeno un anno a questa parte.

Ma esiste anche qualche buona ragione per essere meno pessimisti. In questi anni di azzeramento dei tassi, la BCE ha reso i BTp per niente appetibili per le famiglie italiane. In un certo senso, le ha rimpiazzate. Prima del QE, esse detenevano direttamente oltre il 12% del debito pubblico italiano, mentre adesso intorno al 6% o anche meno. Lo stesso dicasi per le banche e assicurazioni italiane, scese dal 30,3% al 26,5% tra il 2014 e il 2019.

Calo analogo per gli investitori istituzionali stranieri.

Il possibile ritorno delle famiglie

In altre parole, vi è stato il classico effetto spiazzamento. La BCE ha comprato principalmente dagli istituzionali, mentre le famiglie hanno deciso perlopiù di abbandonare un mercato divenuto ormai per nulla fruttifero. Pensate che i rendimenti erano negativi fino alle scadenze medio-lunghe ancora pochi mesi fa. Meglio parcheggiare il denaro in banca, dove almeno i tassi d’interesse erano zero. Sui conti degli istituti vi sono quasi 1.860 miliardi di liquidità di famiglie e imprese, gran parte della quale pronta ad essere impiegata per mettere a frutto i risparmi.

Adesso che il BTp a 10 anni già sfiora il 3% e si arriva al 2% a partire dai 5 anni, torna a crescere l’appeal del debito pubblico. Se le famiglie dovessero riportarsi almeno al 12% del periodo pre-QE (erano al 90% negli anni Novanta), dovrebbero aumentare le loro esposizioni dirette di almeno 150 miliardi, se non di più. Sembrano numeri irraggiungibili, ma non se raffrontati proprio ai 1.860 miliardi tenuti infruttiferi in banca.

E ci sono gli stessi istituzionali italiani a trovare verosimilmente conveniente ributtarsi sul mercato sovrano, a fronte di un rapporto rendimento/rischio allettante. L’unica cosa indispensabile è recuperare la loro fiducia. Meno slogan al governo e più azioni miranti a sostenere la crescita economica e il consolidamento fiscale. Sono la cornice essenziale per drenare risparmi dalle famiglie italiane e spegnere l’allarme spread sul nascere.

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