Quando il “benchmark” per il mercato obbligazionario mondiale passa in poco più di tre anni dall’offrire lo 0,50% al 5% e in appena due anni più che triplica il rendimento, lo scossone per la finanza è grande. I rendimenti dei T-bond decennali negli Stati Uniti sono saliti ai livelli più alti dal 2007. A livello assoluto, sul piano storico non sono nulla di eccezionale. Agli inizi di questo millennio, erano al 6,70%. Il problema è che il mondo è cambiato negli ultimi quindici anni, anzi è stato cambiato dalle banche centrali, Federal Reserve in testa.

L’opera di repressione finanziaria avviata dopo la crisi finanziaria del 2008 aveva ridotto i rendimenti planetari ai minimi termini. In assenza di inflazione, sembrava che il denaro non avesse più alcun costo e prenderlo a prestito fosse, oltre che economico, persino conveniente.

In brevissimo tempo, questa illusione è stata smentita dai fatti. Il ritorno dell’inflazione ai livelli più alti sin dagli anni Ottanta ha indotto i governatori ad una ritirata fortunosa dal potente apparato di stimoli monetari varato negli anni precedenti. E’ accaduto ovunque, fuorché in Giappone. Qui, il tempo sembra essersi fermato all’era Covid. I tassi restano al -0,10% e i rendimenti sovrani sotto il controllo rigido della banca centrale. A soffrirne è lo yen, tanto che lo scorso anno la Banca del Giappone dovette intervenire in suo sostegno per due volte. E in questi giorni il cambio si è riportato nuovamente ad una soglia critica.

Mercato T-bond in affanno

I rendimenti negli Stati Uniti sono diventati molto allettanti, attestandosi in media al 5% lungo l’intera curva. Da un lato il mercato pretende di essere ben remunerato contro il rischio inflazione, dall’altro stanno esplodendo le emissioni di T-bond per via dell’alto deficit fiscale. In un certo senso, c’è un eccesso di offerta di titoli di stato di Washington. Il mercato non riesce del tutto ad assorbirli.

Il peggio verrebbe nel caso in cui Tokyo decidesse di seguire la stretta monetaria dell’Occidente.

Il mercato sovrano nipponico vale qualcosa come 8.000 miliardi di dollari, il secondo più grande al mondo dopo gli Stati Uniti. Metà dei bond emessi si trova ormai in mano alla Banca del Giappone per gli ingenti acquisti condotti con l’allentamento monetario dell’ultimo decennio. Vi immaginate cosa significherebbe un aumento dei tassi di interesse? Ingenti flussi di capitali sarebbero dirottati verso il Sol Levante. A farne le spese sarebbero i principali mercati avanzati. I rendimenti negli Stati Uniti esploderebbero ulteriormente. La FED rischierebbe di perdere del tutto il controllo del tratto lungo della curva. Un caos.

Rendimenti Stati Uniti interconnessi ai tassi negativi di Tokyo

D’altra parte, anche il mantenimento dei tassi negativi provoca un mal di testa sia al Giappone che agli Stati Uniti. Le pressioni sul cambio spingono Tokyo a ridurre gli acquisti di T-bond per non aumentare la domanda di dollari già elevata. Anzi, nel caso di intervento a sostegno dello yen la banca centrale è costretta a vendere T-bond. Tutto ciò ne deprime i prezzi e accresce i rendimenti negli Stati Uniti. Con ripercussioni negative anche in Europa, dove i bond devono tener testa al “benchmark”.

Ecco perché sembra verosimile che Jerome Powell e Kazuo Ueda concordino parte delle loro mosse. Una FED troppo aggressiva destabilizza la Banca del Giappone e una Banca del Giappone che uscisse dall’accomodamento monetario con convinzione finirebbe per mandare alle ortiche il mercato dei T-bond. Serve un delicato e difficile equilibrio per non fare saltare in aria il sistema finanziario mondiale.

[email protected]