Il cambio contro il dollaro è salito nella seduta di ieri (oggi in Italia) fino a 150,78, toccando il risultato più basso per lo yen da un anno a questa parte e riportandoci ai livelli a cui la Banca del Giappone decise di intervenire sul mercato forex dopo 24 anni. Dall’inizio dell’anno, la valuta nipponica perde il 13% contro il biglietto verde. Inevitabile, data la divaricazione tra i rendimenti sovrani di Stati Uniti e Giappone. Il decennale a stelle e strisce si è portato al 5%, mentre l’omologo di Tokyo è salito solo allo 0,88%.

In ogni caso, per il secondo si tratta del livello più alto dal 2013 e quasi a ridosso del tetto dell’1% raddoppiato di recente dall’istituto centrale.

Ancora tassi negativi in Giappone

La debolezza dello yen sta tutta qui. La politica monetaria del Giappone è rimasta agli anni dei rendimenti negativi. Il governatore Kazuo Ueda, in carica dall’aprile scorso, non mostra alcuna volontà di correre a cambiarne i paradigmi. Sostiene la necessità prima che l’aumento dei prezzi registrato dalle materie prime si trasferisca strutturalmente sulla generalità dei prezzi al consumo. C’è da dire che il Sol Levante non ha un grosso problema d’inflazione. A settembre, si attestava al 3%, sopra il target del 2% per il diciottesimo mese consecutivo, ma l’apice fu toccato a gennaio al 4,3%, stesso livello attuale dell’Eurozona.

Dopo un quarto di secolo in deflazione, non c’è fretta a Tokyo. Ciò detto, questa politica monetaria non sembra più sostenibile. C’è il rischio di un deflusso inarrestabile dei capitali, a caccia di rendimento. E le pressioni sullo yen crescono. La Banca del Giappone potrebbe trovarsi costretta ad intervenire anche stavolta per arrestarne la debolezza. La richiesta dovrebbe partire dal Ministero delle Finanze, che ha già fatto sapere di monitorare i mercati “con un senso di urgenza”.

Intervento su forex con vendite di T-bond

Cosa significherebbe intervenire sul mercato forex? Vendere dollari in cambio di yen.

E i primi sarebbero in forma di titoli di stato americani. In sostanza, il sostegno al cambio equivale a vendere T-bond, facendone salire i rendimenti. Anche questo spiegherebbe la caduta dei prezzi obbligazionari negli Stati Uniti. C’è una fetta di Asia, in particolare, che sta limitando gli acquisti o persino mettendosi a vendere T-bond a tutela dei propri tassi di cambio.

La Banca del Giappone tiene ancora i tassi al -0,10% contro il 5,50% della Federal Reserve. Tuttavia, un inasprimento diretto delle condizioni monetarie è escluso nel breve termine. Più probabile che consenta ai rendimenti di salire ulteriormente a ridosso dell’attuale tetto e che successivamente lo innalzi ancora una volta. Una mossa, tuttavia, che rischierebbe di generare aspettative rialziste sul mercato, accrescendo le scommesse degli investitori per un continuo aumento del tetto ai rendimenti.

Cambio tra dollaro e yen al limite

Allo stato attuale, lo yen contro il dollaro è ai minimi dal 1998. Pensate che dall’incidente nucleare di Fukushima nel 2011, perde il 50%. Allora, infatti, si registrò un enorme rimpatrio dei capitali da parte delle compagnie assicurative per pagare i risarcimenti dei danni, che a sua volta rafforzò il cambio ai massimi storici. E guarda caso, proprio nel ’98 era stata l’ultima volta prima del 2022 in cui la Banca del Giappone era intervenuta sul forex a sostegno dello yen. Sembrerebbe, dunque, che l’istituto non tolleri un cambio superiore a 150 contro il dollaro. Questa è la soglia da cui lo yen non potrà allontanarsi più di tanto senza che scattino le misure in sua difesa.

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