Nelle ultime sedute, i BTp hanno scontato un po’ delle tensioni politiche nella maggioranza, pur restando intonati positivamente. Se lo spread a 10 anni con i Bund si è allargato piuttosto stabilmente sopra i 200 punti base, dopo essere sceso nelle settimane passate a un livello minimo inferiore ai 180 bp, del resto è stato dovuto per lo più al crollo dei rendimenti tedeschi, mentre quelli italiani sono arrivati a scendere anche in area 1,40% sul tratto a 10 anni. E sulle scadenze più lunghe? Il BTp 2067, cedola 2,80% (ISIN: IT0005217390), ha reso anche meno del 2,70%.

Trattasi del bond ad oggi più longevo emesso dal Tesoro. Il suo collocamento sul mercato risale all’ottobre del 2016, uno dei momenti più favorevoli per il nostro mercato del debito sovrano.

Ecco perché per i BTp in dollari l’Italia sarebbe a rischio default, ma restando nell’euro

Quello che si può notare è che i BTp a lunghissima scadenza, compresi tra 30 e 50 anni, tenderebbero a ridurre le distanze rispetto al tratto a lungo termine, come sarebbe il decennale, nelle fasi di tensioni finanziarie. Quando nell’autunno scorso si registrò un massiccio “sell off” ai danni dei nostri bond per effetto dello scontro tra governo italiano e Commissione europea sul deficit, i rendimenti a 10 anni schizzarono fino al 3,60%, quelli a 50 anni arrivarono nelle stesse sedute sopra il 3,80%. In altre parole, lo spread 50/10 anni si era ridotto a circa un quarto di punto percentuale.

Lo stesso accadeva con il trentennale, il cui rendimento si attestava a soli 40 bp sopra il decennale, superando lo stesso esitato dal BTp 2067. In sostanza, il tratto più lungo della curva italiana s’invertiva. Oggi, sulla scadenza a 50 anni il rendimento si attesta a ben l’1,20% in più del decennale e a circa +0,25% rispetto al trentennale. E prima che nascesse il governo Conte, quando le tensioni per i nostri titoli non erano ancora esplose, lo spread 50/10 anni risultava all’1,30%, quello 30/10 anni all’1,10%.

In sintesi, più le condizioni appaiono favorevoli ai nostri bond, minore il premio richiesto dal mercato per spostarsi sulle scadenze più lunghe. Perché?

Rischio di cambio diluito nel lunghissimo periodo?

La risposta classica che si da in questi casi è che la curva tende ad appiattirsi e, nei casi più gravi, ad invertirsi quando il mercato sconta tensioni, come il rischio di default, un tasso d’inflazione in rapida ascesa, caos politico, etc. Per l’Italia, tuttavia, la spiegazione potrebbe essere (anche) un’altra: quando il mercato percepisce più concreto il rischio di uscita dall’euro, pretende rendimenti relativamente più alti sulle scadenze brevi, medie e lunghe, accontentandosi di spread più bassi per quelle ultra-lunghe. E che i BTp abbiano scontato simili timori nella seconda metà del 2018 lo segnalerebbe anche la differenza tra il prezzo esitato dai cds a 5 anni secondo ISDA 2014 e quelli secondo ISDA 2003, con i secondi a contemplare il rischio “Italexit”.

Italia a rischio di uscita dall’euro o di ristrutturazione del debito?

Il fatto è che l’eventuale ridenominazione dei BTp in lire infliggerebbe perdite agli investitori stranieri per via della presumibile svalutazione del cambio. Questo scenario sarebbe senz’altro vero all’impatto e negli anni successivi, mentre nel lungo periodo non sarebbe concretamente prevedibile alcun esito. Se oggi uscissimo dall’euro e tornassimo alla lira, chi mai potrà dire se la nostra valuta contro il dollaro risulterà più debole dell’euro tra 30, 40 o 50 anni? Troppe variabili in gioco, difficile tenerle tutte in debito conto per capire l’effettivo impatto sui rendimenti. Da qui, la risalita maggiore dei rendimenti a breve, medio e lungo termine di quelli a lunghissimo termine nelle fasi di tensione.

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