La Turchia è tornata nell’occhio del ciclone sui mercati finanziari. Il cambio tra lira e dollaro ha oltrepassato la soglia di 6 da alcune sedute, perdendo un altro 15% quest’anno ed esitando un crollo del 50% dal 15 luglio del 2016, giorno in cui il presidente Recep Tayyip Erdogan rimase vittima di un fallito golpe. Quella data segna uno spartiacque nella storia recente di Ankara, perché da allora il “mood” sui mercati verso la Turchia è radicalmente cambiato e i dati lo dimostrano ampiamente. Se già allora, a causa di una bilancia commerciale e dei pagamenti cronicamente passive, il cambio contro il dollaro si era dimezzato rispetto al 2009, quando viaggiava in area 1,50, da quel giorno ha iniziato una discesa apparentemente senza fine, alimentata dalla sfiducia tra gli investitori verso l’indipendenza della banca centrale rispetto alla sfera politica.

Lira turca ancora giù e per i bond sovrani ulteriori crolli

Il crollo della lira turca, sintomo della fuga dei capitali, ha fatto esplodere l’inflazione, passata dal 7-8% a un apice del 25% nell’autunno scorso, anche se attualmente continua ad attestarsi a poco meno del 20%. Ciò ha fatto impennare anche i rendimenti sovrani, con i biennali ad essere passati dal 9% al 24,4% e i decennali dal 9,5% al 20%. La curva delle scadenze, in sostanza, si è invertita, mentre fino al fallito golpe era praticamente piatta. E proprio l’esplosione dei rendimenti suggella la china pericolosa verso cui la Turchia si è indirizzata negli ultimi anni, con il mercato domestico a pretendere una remunerazione sempre più alta per tutelarsi dal rischio inflazione, mentre quello estero intende proteggersi contro il rischio di cambio. Ricorda un po’ l’Italia degli anni Ottanta, con la differenza che per fortuna la Turchia vanta un rapporto debito/pil sotto il 30%.

Non si salva nemmeno la borsa

Contrariamente ai desiderata di Erdogan, per arrestare la corsa dell’inflazione e il crollo del cambio, la banca centrale ha dovuto alzare i tassi su valori reali nettamente superiori rispetto al periodo pre-golpe.

Ad oggi, infatti, li tiene al 24%, circa 450 punti base sopra la crescita tendenziale dei prezzi, mentre allora viaggiavano quasi assieme. In altri termini, la politica monetaria è dovuta diventare ben più restrittiva, colpendo l’economia, i cui tassi di crescita sono passati in territorio negativo dalla seconda metà dello scorso anno.

Nemmeno la Borsa di Istanbul ha esibito nel frattempo una performance positiva, crescendo di appena il 6% dalla metà di luglio di tre anni fa, ma si consideri che nel frattempo l’inflazione ha eroso il potere di acquisto di circa il 40%. Del resto, le stesse riserve valutarie hanno subito un tracollo di oltre un quarto, scendendo sui 25 miliardi di dollari, segno che i capitali esteri continuino a segnalare sfiducia sul prossimo futuro di Ankara. Ed effettivamente, in un altro articolo di qualche giorno fa, vi avevamo dimostrato come il mercato si attenda un ulteriore deprezzamento della lira turca da qui agli anni futuri, addirittura, di circa il 55% entro 10 anni, stando ai diversi rendimenti esitati dai bond emessi in dollari.

Insomma, la crisi turca è stata auto-inflitta e conseguenza di una politica poco rassicurante sul piano delle relazioni con l’estero (vedi anche tensioni con USA, Arabia Saudita e i casi di Siria e curdi) da una parte e al suo interno dall’altro, con una presidenza che ha continuato ad accentrare poteri, riducendo i margini di autonomia della banca centrale, indisponendo gli investitori e aggravando i problemi di instabilità finanziaria, con la bilancia commerciale e quella dei pagamenti da pochi mesi ad avere vistosamente ridotto i rispettivi disavanzi, ma al costo di una recessione provocata da una stretta monetaria più che necessaria e quanto mai in dubbio proprio adesso che le elezioni amministrative hanno segnalato un calo del consenso per l’Akp di Erdogan.

Lira turca ai minimi da 7 mesi sulle elezioni annullate a Istanbul

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