Il segno che i mercati obbligazionari stiano tendendo a una minima normalizzazione lo ha dato ieri la Svizzera, quando il suo bond a 30 anni è arrivato ad offrire in chiusura di seduta lo 0,066%, tornando in territorio positivo per la prima volta dal novembre 2019. All’inizio dell’anno, il titolo esibiva un rendimento negativo dello 0,32%. Tuttavia, oggi già tornava ad apprezzarsi, tanto che il rendimento è ridisceso al -0,04%. Forti oscillazioni, che lasciano dubitare su un qualche intervento della Banca Nazionale Svizzera (BNS).

Alla fine di gennaio, essa deteneva riserve valutarie per ben 769 miliardi di franchi, qualcosa come circa il 125% del PIL alpino.

Da notare, che nelle ultime quattro settimane i depositi a vista presso la BNS sono aumentati di 9 miliardi, in apparenza un altro segnale che l’istituto starebbe cercando di frenare l’apprezzamento del cambio per evitare la caduta dell’economia domestica nella deflazione. Il portafoglio di investimenti nelle obbligazioni elvetiche ammontava a fine dicembre scorso a soli 4 miliardi, di cui per il 38% in titoli di stato. Dunque, eventuali acquisti o vendite dei bond da parte di Zurigo sarebbero quantitativamente limitati. Non possiamo escludere, però, che la BNS sia intervenuta nelle scorse ore per far tornare il bond a 30 anni sottozero, così da evitare che i rendimenti positivi attirino capitali esteri, i cui afflussi finirebbero per rendere più difficile l’obiettivo di contenere la forza del “super” franco.

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Rendimenti in rialzo un po’ ovunque

Il trend svizzero s’inserisce all’interno di una medesima evoluzione globale. Per la prima volta, sempre ieri tutte le scadenze a 30 anni in Europa offrivano rendimenti positivi. E non accadeva da parecchio tempo. Effetto della reflazione in corso, dalla quale i mercati stanno cercando di proteggersi pretendendo rendimenti nominali più elevati. Ad esempio, il Bund 2050 zero coupon (ISIN: DE0001102481) è passato quest’anno dal -0,16% al +0,115% di oggi.

Il titolo ha perso il 7,65% in appena un mese e mezzo, scendendo decisamente sotto la pari. A metà seduta, si aggirava in area 97 centesimi. Aveva chiuso il 2020 sopra 105.

Dall’altra parte dell’Atlantico sta accadendo la stessa cosa. Il mercato sconta il maxi-piano fiscale dell’amministrazione Biden da 1.900 miliardi di dollari e il rendimento a 10 anni è salito quest’anno dallo 0,92% all’1,20%, quello a 30 anni dall’1,65% al 2%. Per il momento, il “repricing” non sta riguardando i BTp, i quali hanno ridotto i rendimenti lungo la curva delle scadenze nelle ultime settimane, favoriti dalla nascita del governo Draghi. Lo spread BTp-Bund a 10 anni è sceso in un mese di circa 25 punti base, ammortizzando la risalita dei rendimenti tedeschi. Un altro elemento che depone a favore dei nostri bond è la più bassa inflazione italiana rispetto a quella media nell’Eurozona: 0,2% a gennaio contro 0,9% dell’area e 1% in Germania. Pertanto, la domanda domestica regge, date le minori perdite attese sul fronte del potere di acquisto.

Ma nessuna economia accetterà un repentino rialzo dei rendimenti. In primis, perché ciò si mostrerebbe rischioso per la sostenibilità dei debiti. Secondariamente, perché attirerebbe capitali dall’estero e apprezzerebbe così i tassi di cambio, uccidendo la ripresa del PIL in culla, colpendo le esportazioni e traducendosi in una spirale deflazionistica. Ad ogni modo, il trend resta quello sopra descritto. Coordinandosi tra di loro, verosimilmente le banche centrali accetteranno graduali aumenti sincronizzati dei rendimenti sovrani per normalizzare i mercati e al contempo sincerandosi che il fenomeno non riguardi particolarmente un’economia piuttosto che un’altra.

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