Il Messico è stato il primo paese emergente ad avere raccolto capitali sui mercati internazionali nel 2020. Lo ha fatto rompendo gli indugi dopo l’esplosione inattesa delle tensioni tra USA e Iran, emettendo due obbligazioni di stato con scadenza rispettivamente a 10 e 30 anni. L’emissione a 10 anni era stata studiata per 1,75 miliardi di dollari, ma quando la domanda ha superato l’offerta di circa 3,5 volte, il Tesoro messicano ha pensato bene di approfittarne, innalzando l’importo a 3,05 miliardi, a cui si aggiungono gli 800 milioni destinati al trentennale.

In tutto, sono stati così raccolti capitali per 3,85 miliardi.

Nel dettaglio, il decennale con scadenza nel 2030 e cedola 3,25% è stato prezzato a 99,468 e ha esitato un rendimento medio annuo del 3,312%, pari a 150 punti base sopra il corrispondente Treasury. Il trentennale con cedola 4,50% e scadenza nel 2050 ha esitato, invece, un rendimento di 175 bp superiore al Treasury. Trattasi di un titolo che già circola sul mercato secondario da inizio agosto scorso per un paio di miliardi di dollari e che attualmente offre il 4,17% (ISIN: US91087BAG59).

Indubbio il successo per il Messico, reduce da un 2019 complicato. E’ stato di fatto il primo anno di presidenza per Andres Manuel Lopez Obrador (AMLO), di tendenze marxiste e per questo assai temuto dagli investitori stranieri. Tuttavia, il peso si è rafforzato del 2,5% contro il dollaro nei dodici mesi, chiudendo a un cambio di poco inferiore a 19. L’economia messicana, invece, si è fermata. Anzi, nei primi due trimestri dell’anno risulta in leggera contrazione, segnalando l’ingresso nella recessione. Sul Messico grava, poi, lo spettro del declassamento sia della compagnia petrolifera statale Pemex che del rating sovrano. Quest’ultimo è “A3” per Moody’s, “BBB+” per S&P e “BBB” per Fitch.

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Alto il rischio sui bond

Il destino dei due rating appare quanto mai intrecciato.

Pemex è stata sostenuta da un salvataggio pubblico di 9,5 miliardi di dollari nei mesi scorsi, iniettati nella compagnia tramite ricapitalizzazione diretta e crediti d’imposta, trasferendo i rischi dei quasi 100 miliardi di debiti finanziari in capo allo stato. Di questi, 80 sono stati contratti in dollari USA sui mercati internazionali. Pemex è giudicato un emittente “junk” da Fitch e se dovesse essere declassato a “non investment grade” da una seconda agenzia, molti investitori istituzionali sarebbero costretti per statuto a vendere i suoi bond. In più, un declassamento avrebbe effetti anche sul giudizio sovrano, essendo lo stato di fatto un garante della compagnia pubblica. Del resto, i debiti di Pemex aumentano proprio i rischi sovrani e rendono più probabile un suo declassamento.

Perché Pemex fa paura non solo agli obbligazionisti, ma anche ai creditori del Messico

Ad ogni modo, il bond a 30 anni ha reso in appena 5 mesi oltre l’11%, tenendo conto anche dell’effetto cambio. Ma il passato è passato e nulla ci dice che la carta messicana possa replicare la performance recente. Attualmente, il decennale in pesos sfiora il 7% di rendimento, meno dell’8,7% di un anno fa, beneficiando del rally globale. Esso segnalerebbe un deprezzamento del cambio contro il dollaro atteso dal mercato intorno al 3,7% all’anno da qui ai prossimi 10 anni. A conti fatti, si tratterebbe di uno scenario peggiore rispetto al decennio appena trascorso, durante il quale il tasso di deprezzamento medio della valuta emergente si è attestato al 2,8%.

Questi numeri implicherebbero anche il rischio di rendimenti insufficienti a compensare la svalutazione del capitale alla scadenza per via dell’indebolimento del peso messicano. Nel breve, le tensioni riguarderanno anche la politica fiscale del presidente AMLO, sebbene i tagli alla spesa recentemente varati abbiano parzialmente diradato qualche nube. Ma la crescita resta il grande problema irrisolto del paese, con il tasso medio registrato nell’ultimo decennio di appena il 2,7%, molto poco per un’economia emergente.

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