Il 2020 è stato un anno particolarmente difficile per le finanze del Golfo Persico. Il crollo delle quotazioni petrolifere ha ridotto drasticamente le entrate statali, mandando in profondo rosso i conti pubblici. Complessivamente, nei primi 11 mesi dell’anno sono stati emessi bond sovrani per un controvalore di 47,5 miliardi di dollari, oltre a sukuk per 28,7 miliardi. Nel 2019, le emissioni erano state rispettivamente di 48,8 e 34,3 miliardi, per cui non si sarebbe registrato alcun aumento del ricorso all’indebitamento. Lo stesso discorso vale per il comparto corporate: emissioni di bond per 46,2 miliardi e di sukuk per 19,9 miliardi.

L’anno prima erano stati 45,3 miliardi i primi e 14,8 miliardi i secondi. In totale, quindi, le emissioni sono risultate pari a 142 miliardi, in sostanziale linea con l’anno precedente.

I sukuk sono titoli obbligazionari compatibili con la legge islamica, che vieta di prestare denaro dietro interesse. Per questo, essi prevedono una compartecipazione dell’obbligazionista agli utili derivanti dall’impiego dei prestiti raccolti sul mercato. Ad ogni modo, grazie alla ripresa dell’economia globale e alla contestuale risalita dei prezzi del greggio, i deficit fiscali attesi nell’area scenderebbero dai 127 miliardi del 2020 agli 84,3 miliardi di dollari di quest’anno. Queste sono le previsioni del Fondo Monetario Internazionale.

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Kuwait con le mani legate sul debito

Per contro, le emissioni corporate dovrebbero crescere sui maggiori investimenti attesi delle imprese. Ma in questo scenario resta l’incognita del Kuwait. L’emirato nel 2020 ha registrato un deficit di circa 46 miliardi di dollari, quasi un terzo del PIL. Le sue casse statali dipendono per il 90% dalle entrate petrolifere. Il suo principale problema è stato in tutti questi mesi l’impossibilità di ricorrere all’indebitamento, a causa di una legge del Parlamento che lega le mani al governo. A dicembre, le elezioni politiche hanno portato a una netta avanzata dei deputati dell’opposizione, piuttosto critici verso l’alto debito e la corruzione.

Pur non esistendo formalmente i partiti, si sa che 24 dei 50 eletti sono contrari all’esecutivo, praticamente quasi quanto la maggioranza. Erano 16 nella legislatura scorsa.

In queste condizioni, per il Kuwait sarà ancora più difficile emettere bond. Questo non significa che l’emirato rischi il default, in quanto il governo potrebbe sempre far ricorso al fondo sovrano da quasi 535 miliardi di dollari, nonché emanare un decreto d’urgenza per ottemperare ai suoi obblighi. Le ultime due emissioni risalgono ormai al 2017 e hanno riguardato la scadenza 20 marzo 2022 e cedola 2,75% (ISIN: XS1582346703) e la scadenza 20 marzo 2027 e cedola 3,50% (ISIN: XS1582346968). Nell’ultima seduta del 2020, esse offrivano rispettivamente lo 0,485% e l’1,185%. Interessante notare come i prezzi non si siano sostanzialmente mossi nell’ultimo mese, cioè non abbiano risentito in alcun senso dell’esito delle elezioni.

I bond del Kuwait hanno rating molto alti: AA- per S&P, AA per Fitch e A1 per Moody’s. Gli unici due paesi nell’area a non avere rating “investment grade” sono Oman e Bahrein. In ogni caso, entrambi godrebbero del sostegno dei vicini e, pertanto, riescono ugualmente ad accedere ai mercati internazionali a costi sostenibili. Non è neppure detto che le emissioni sovrane si riducano con il calo dei deficit. I governi potrebbero approfittare dei bassi rendimenti per rifinanziarsi a condizioni migliori rispetto al passato, magari anche per tamponare le riserve valutarie. In conclusione, con la ripresa del petrolio sulle migliorate prospettive per l’economia globale il Golfo Persico dovrebbe attirare capitali dal resto del pianeta e in cerca di “yield” nel corso del 2021.

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