La finanza sostenibile è diventata un mantra negli ultimi anni. I fondi d’investimento stanno sempre più attenti a tenersi alla larga da possibili acquisti “scomodi” sul piano reputazionale. Di recente, persino il fondo sovrano norvegese ha deciso di disinvestire da tutti gli asset legati al comparto petrolifero, un clamoroso paradosso per un ente alimentato proprio dai proventi del petrolio. Nel frattempo, quello saudita si butta sugli investimenti green e si moltiplica quotidianamente il numero delle case che adottano uno statuto ESG, sigla che sta per “ambientale, sociale e responsabile”.

Ma la crisi energetica ha cambiato i piani. L’Unione Europea è passata in brevissimo tempo dall’invitare Greta Thunberg ad ogni appuntamento per testimoniare la propria svolta ambientale al mutare in corsa la tassonomia verde, includendo gas naturale e nucleare tra le fonti sostenibili. Con la guerra ucraina, il mondo della finanza potrebbe compiere autonomamente un passo in avanti, includendo tra gli investimenti ESG persino quelli a favore di asset legati alla vendita di armi, insomma alla difesa.

Alla base di questa svolta apparentemente paradossale vi è la presa d’atto che principi come libertà e democrazia per essere sostenuti necessitino anche di soluzioni militari. Le relative spese, dunque, dovrebbero essere inserite tra quelle meritevoli di sostegno da parte della comunità finanziaria internazionale. Ciò implica anche il riconoscimento dei debiti emessi dalle società attive nel comparto della difesa – e chissà, prima o poi di quelli degli stati europei per finanziare la corsa al riarmo – tra i bond ESG.

Finanza sostenibile, finché conviene

Anche per questa ragione le azioni Leonardo, tanto per restare in Italia, quest’anno guadagnano più del 37% contro il -13% accusato da Piazza Affari. Le obbligazioni stesse della società si sono prima stabilizzate e successivamente hanno teso al rialzo con lo scoppio della guerra in Ucraina. Il mercato fiuta che i vincitori di questa fase turbolenta siano proprio le imprese legate alla costruzione di armi e gravitanti attorno al comparto della difesa.

Resta lo stupore per una svolta che per certi versi rischia di annacquare ulteriormente il concetto di finanza sostenibile. Più che altro emerge l’ipocrisia di un sistema che negli ultimi tempi stava lisciando troppo il pelo alle sensibilità di minoranze della società, smarrendo quasi il senso della missione del mercato, la quale non consiste nel giudicare l’eticità di un investimento.

Già con i green bond avevamo assistito negli ultimi anni a un fenomeno noto come “greenwashing”, cioè la pratica di abbracciare l’ambientalismo solo di facciata e al fine di spuntare costi più bassi all’atto dell’emissione dei debiti e riscuotere le simpatie del mercato. Se tutto è green o ESG, cosa non lo è? E che senso avrebbe, a quel punto, continuare a portare avanti un segmento degli investimenti non più esclusivo? Fatto sta che dalla Svezia il gruppo finanziario SEB ha fatto presente come molti suoi clienti vorrebbero investire nella costruzione delle armi. Un anno fa, aveva adottato criteri ESG per escludere proprio le armi dal novero delle sue scelte d’investimento. Insomma, ci si adatta alla bisogna.

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