Si chiamano Credit Default Swaps, in sigla CDS. Sono i titoli derivati che assicurano gli obbligazionisti contro eventuali perdite accusate nel caso di un “evento creditizio” avverso dell’emittente dei bond. In altre parole, coprono dal rischio default. Questi strumenti finanziari nacquero negli anni Novanta ad opera della banca d’affari americana JP Morgan e sono vigilati dall’International Swaps and Derivatives Association (ISDA). A loro volta, come vedremo, si sono rivelati strumenti idonei alla speculazione, vale a dire a consentire a chi li emette di guadagnare da un rialzo dei prezzi.

Esempio di investimento in BTp con CDS

Cerchiamo di capire come funzionino. Immaginiamo di acquistare titoli di stato italiani – i famosi BTp – per un controvalore nominale di 10.000 euro. Di fatto, ci stiamo assumendo un rischio di credito, per quanto basso teoricamente sia. Esso consiste nella possibilità che lo stato italiano fallisca e non riesca a rimborsarci il capitale. Altro rischio potrebbe consistere nel ritardato o parziale pagamento delle cedole.

Per metterci al riparo da tale rischio, acquistiamo un CDS. Chi ce lo vende, ci garantisce che se scatta l’evento creditizio avverso, i nostri pagamenti sarebbero salvi. Chiaramente, al pari di una qualsiasi polizza assicurativa, pretende il pagamento di una somma annua per tutto il periodo di copertura del rischio, generalmente di 5 anni. Ed è altrettanto chiaro che, più alto il rischio di credito assunto, più alto il prezzo che l’emittente del CDS ci chiederà per assicurarci. Di fatto, il prezzo esprime di per sé un indicatore importante del rischio di credito percepito sul mercato.

In questi giorni, il CDS a 5 anni sui BTp è di 100 punti base. A titolo di confronto, viaggia intorno ai 14 punti base per la Germania, ai 26 per la Francia e sopra 40 per la Spagna. Questo è dovuto al fatto che il debito pubblico italiano sia ritenuto più rischioso, come segnalano i bassi rating assegnatigli dalle agenzie internazionali e gli alti rendimenti pretesi dal mercato.

Ad ogni modo, se acquistassimo un BTp a 10 anni per 10.000 euro, dovremmo pagare l’1% solo per assicuraci contro il rischio default dell’Italia. Nel caso specifico, 100 euro all’anno per 5 anni. Considerato che il rendimento netto del bond viaggia attualmente al 2,1%, il nostro rendimento effettivo scenderebbe all’1,1%.

CDS come strumenti speculativi

Capite bene perché gli investitori stranieri pretendano dai BTp rendimenti nettamente più alti di quelli tedeschi. Per comprare i secondi, infatti, i CDS nel concreto non servono, essendo il rischio default della Germania praticamente nullo. Dunque, se acquistassero BTp a rendimenti netti superiori per meno dell’1%, finirebbero per rimetterci. Tanto varrebbe acquistare direttamente bond tedeschi.

I CDS a loro volta possono essere ceduti a terzi da chi li emette, e così via. Poniamo che il rischio default percepito per l’Italia aumenti. Il mercato sarà desideroso di coprirsi e si mostrerebbe disponibile a pagare di più per ricevere la dovuta protezione. A quel punto, chi possiede un CDS emesso all’1% può venderlo per ipotesi all’1,5%. La differenza rappresenterebbe una plusvalenza. Tuttavia, le negoziazioni non avvengono in un mercato regolamentato, bensì Over The Counter (OTC).

Default sempre più rari

C’è un problema negli ultimi anni: i CDS sempre meno spesso tutelano dai rischi di credito. In effetti, affinché la garanzia a favore dell’obbligazionista scatti, è necessario che sia effettuata una dichiarazione formale di default. E oramai si tratta di eventi rari, perché i governi sull’orlo del crac sempre più spesso giungono a un accordo di ristrutturazione del debito con i creditori, evitando il default formale. Pensate alla Grecia nella primavera del 2012: taglio del valore nominale dei bond del 53,5%, pari a ben 107 miliardi di euro, nonché allungamento della durata a 11-30 anni.

Malgrado ciò, non essendo scattato formalmente alcun default, grazie all’accordo di ristrutturazione avvenuto tra governo di Atene e obbligazionisti, questi ultimi non hanno potuto rivalersi sui CDS.

Il discorso si complica con le Clausole di Azione Collettiva o CACs. Esse assegnano ai governi dell’Unione Europea sin dal 2013 la possibilità di emettere fino al 45% dei bond all’anno di durata superiore ai 12 mesi a condizioni meno favorevoli agli obbligazionisti nel caso necessitino di una rinegoziazione dei debiti. Infatti, potranno tagliare il valore nominale dei bond e/o delle cedole, allungarne la durata e pagare in altra valuta senza che scatti il default, previo evidentemente un accordo con i creditori. Praticamente la nozione di default si restringe a casi sempre meno frequenti. Infine, trattasi di una protezione per pochi: i contratti tipici proteggono un capitale sottostante di 10 milioni di euro, ragione per cui i CDS li acquistano solo gli investitori istituzionali.

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