Il BTp a 10 anni è tornato a rendere meno dell’1%, tra risultati favorevoli alla tenuta del governo Conte in Emilia-Romagna e caccia al rendimento sui mercati internazionali. Il miglioramento è avvenuto lungo l’intera curva delle scadenze, un fatto che fa sorridere i nostri conti pubblici, sempre che questa fase positiva duri nel tempo. Partiamo da un dato: nel 2019, il costo medio ponderato del debito pubblico emesso dal Tesoro è stato dello 0,93%, in calo dall’1,07% del 2018. Poiché i costi di emissione sono strettamente connessi all’andamento dei nostri bond sul mercato secondario, un modo per monitorare la variazione dei primi è seguire i secondi.

Come? Guardando alla scadenza che più li rappresenta.

Il nostro stock di debito ha una vita media ponderata di poco meno di 7 anni. Dunque, il BTp a 7 anni capterebbe il costo medio complessivo. E’ un ragionamento che abbiamo svolto più volte su Investire Oggi. In questa fase, il BTp dicembre 2026 e cedola 1,25% (ISIN: IT0005210650) rappresenta alla perfezione la scadenza media del debito pubblico italiano, avendo vita residua di 7 anni meno 1 mese. E cosa ci dice questo titolo? Oggi, rende lo 0,56%, mentre nel mese di gennaio ha mediamente offerto lo 0,86%. Che si prenda come riferimento il dato mensile o quello odierno, in entrambi i casi otterremmo una percentuale inferiore rispetto allo scorso anno.

Certo, nel caso in cui i 245 miliardi di euro di bond a medio-lunga scadenza in programma per quest’anno fossero emessi mediamente allo 0,86% dell’intero gennaio, i risparmi sul 2019 sarebbero relativamente contenuti, nell’ordine di circa 170 milioni di euro. Se, invece, si attestassero allo 0,56% di oggi, il costo medio scenderebbe di 37 centesimi, corrispondenti a 900 milioni di euro, circa mezzo decimale di pil. Questo, però, a patto che il Tesoro decidesse di mantenere inalterata la vita media residua dello stock.

Perché il BTp luglio 2025 è un indice di tutto il mercato sovrano italiano

Dilemma tra scadenze e risparmi

Proprio il forte abbassamento dei costi di emissione indurrebbe a un allungamento progressivo delle scadenze, dato che oggi, ad esempio, emettere un BTp a 50 anni ci costa nettamente meno di quanto nel 2010 ci comportava l’emissione di un quinquennale.

Sarebbe logico, a parità di spesa per interessi, puntare sui titoli più longevi, con il doppio vantaggio di ridurre le emissioni nei prossimi anni, esponendoci di meno alla volatilità dei mercati, e di segnalare agli investitori la maggiore sostenibilità del nostro debito, perché una cosa sarebbe una scadenza di 1 miliardo da rifinanziare tra 2 anni, un’altra se fosse da rifinanziare tra 30 anni.

Dobbiamo ammettere, però, che ancora oggi la vita media dello stock risulta inferiore ai 7,2 anni toccati nel 2010, quando eppure i rendimenti medi ponderati dei BTp si attestavano su livelli quadrupli rispetto alla fase attuale. Questo, perché i nostri conti pubblici hanno bisogno di qualsiasi forma di risparmio immaginabile e anche perché parte della stessa minore spesa per interessi sostenuta dal governo viene deviata in favore dell’economia reale, la cui debolezza cronica non consente, purtroppo, di compiere ragionamenti di gestione più efficiente del debito e tiene sotto stress il deficit.

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