Il Tesoro ha attirato una domanda record al collocamento sindacato tramite Banca IMI, BNP Paribas, Credit Agricole, Deutsche Bank e Goldman Sachs del BTp con scadenza 1 settembre 2049. Si tratta di un nuovo trentennale, che si affianca a quello con scadenza gennaio 2048, rispetto al quale si è saputo informalmente che riconoscerà un rendimento iniziale extra di 18 punti base. Considerando che poco prima della chiusura della raccolta ordini, il vecchio “benchmark” trentennale sul mercato secondario saliva al 3,70%, significa che il nuovo bond offrirebbe poco meno del 3,9%.

Il rendimento extra era atteso nell’ordine dello 0,22%, ma il grosso successo del collocamento ha limato le stime previsionali, se è vero che a un’ora dalla chiusura, i book segnavano ordini già per 33 miliardi di euro, mai così tanti per un BTp a lunghissima scadenza come questo.

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A gennaio, il BTp marzo 2035, un quindicennale, aveva attirato domanda per 35,5 miliardi di euro. Dunque, se alla fine dello scorso anno eravamo un po’ tutti impensieriti dalla bassa domanda dall’estero per i nostri titoli di stato nel corso del 2019, quando la BCE avrebbe cessato gli acquisti netti realizzati con il “quantitative easing”, le prime settimane starebbero smentendo il pessimismo. A gennaio, il rendimento medio dei nostri bond è sceso a meno del 2%, sgonfiandosi per il terzo mese consecutivo e riportandosi ai minimi dal maggio scorso, pur restando di circa mezzo punto più in alto rispetto ad allora.

Interessante appare l’appetito del mercato verso i nostri titoli più longevi, quando già sappiamo che nelle ultime settimane gli investitori si sono buttati a capofitto sui nostri BoT, facendone scendere i rendimenti in area negativa fino ai 9 mesi e in area 0,10% per gli annuali. In effetti, quel 3,7% offerto dai nostri trentennali e il 3,83% del BTp 2067, noto anche come “Matusalemme”, per quanto appaiano ancora bassi, storicamente parlando (i decennali italiani viaggiavano al 4,5% prima della crisi del 2008), continuano a mostrarsi molto più generosi degli omologhi stranieri, con la Spagna ad offrire più dell’1% in meno e la Germania, addirittura, circa 5 volte in meno.

Gli stessi Treasuries a 30 anni non vanno oltre il 3%.

I rischi connessi al BTp 2049

Resta da vedere quanti il Tesoro deciderà di assegnarne. Le previsioni parlano di 6-6,5 miliardi, forse persino 7 miliardi di euro. E’ chiaro che maggiore l’importo collocato, più basso il fabbisogno di rifinanziamento residuo per l’anno in corso e più si allunga la durata media del nostro debito, pari a 6,78 anni alla fine del 2018. Il “trade-off” sta sempre nel costo dell’operazione. Nel 2018, il rendimento medio dei titoli collocati sul mercato è stato di poco superiore all’1% e a gennaio, con scadenze medie molto più corte, si è ottenuto un simile risultato. Il 3,9% atteso per il BTp 2049, quindi, farebbe lievitare il costo medio complessivo, gravando sui conti pubblici, anche se segnalerebbe una maggiore solidità del nostro debito, perché una cosa sarebbe un bond che scade tra 5-6 anni, altra uno che dovrà essere rimborsato tra 30 anni e passa.

La domanda record per i nostri bond più longevi, poi, ci racconta che il mercato, pur scontando forti criticità per l’Italia nel breve e medio termine, risulta forse meno allarmata per l’orizzonte temporale più lungo. Resta il fatto che su quest’ultimo tratto, i nostri rendimenti continuano ad essere notevolmente superiori a quelli benchmark tedeschi, con uno spread di poco inferiore ai 300 bp, cioè di circa 40 bp superiore a quello BTp-Bund a 10 anni. A dire il vero, ciò rifletterebbe più l’anomalia di un bond tedesco fin troppo anemico che non di rendimenti italiani stratosferici, perché richiedere meno dello 0,8% per un investimento con scadenza a 30 anni risulta inconcepibile persino in un ambiente di bassissimi tassi come quello attuale in Europa.

Il cruccio sta nel probabile crollo delle quotazioni dei BTp a lunghissimo termine, man mano che i rendimenti tedeschi inizieranno a normalizzarsi, fermo restando lo spread. Se anche solo questi ultimi dovessero riportarsi ai livelli pre-QE, cioè tra il 2,5% e il 3%, il rischio per i nostri sarebbe di lievitare intorno al 5,5%, per cui infliggerebbe pesanti perdite a chi lo acquistasse sul secondario a questi livelli di prezzo/rendimento.

Prendiamo il BTp 2067, emesso nell’ottobre del 2016 poco sotto la pari e al rendimento del 2,85%. Da allora, ha perso il 17% con un rialzo del rendimento di appena 100 bp o dell’1%. Pensate a quando si assesterà sui livelli compatibili con le valutazioni di lungo periodo a quanto saranno montate le perdite subite dagli investitori. Con una duration attuale di oltre 24 anni, basterà sfiorare il 5% per perdere un altro quarto del proprio investimento. La cedola offerta allora fu troppo bassa in un’ottica di lungo periodo e ciò ha incrementato la volatilità del titolo. Ecco perché bisogna stare in guardia non solo e tanto al rendimento finale esitato dal BTp 2049, quanto alla cedola che il Tesoro fisserà, perché se risultasse bassa, meglio starne alla larga o si resterebbe esposti eccessivamente alle variazioni dei prezzi.

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