Torniamo a parlare dei bond del Venezuela, un caso internazionale che ha occupato le cronache negli anni passati a seguito del default di fine 2017. Caracas ha sospeso sin da allora i pagamenti su oltre 60 miliardi di dollari tra titoli di stato e obbligazioni emesse da PDVSA, la compagnia petrolifera statale. La situazione è complicatissima e ingarbugliata sul piano geopolitico, oltre che finanziario. A partire dal 2019, infatti, gli Stati Uniti non riconoscono più ufficialmente il governo di Nicolas Maduro quale legittimo rappresentante della repubblica bolivariana.

L’allora amministrazione Trump riconobbe Juan Guaidò come presidente, in quanto capo dell’Assemblea Nazionale a maggioranza in mano alle opposizioni al regime.

Contrariamente alle attese, la dittatura non ha indietreggiato e, anzi, ha consolidato il proprio potere nel paese. Ora di assemblee elettive ne esistono due e solo una è in mano alle opposizioni. Questa è legalmente riconosciuta dagli Stati Uniti e una cinquantina di paesi di tutto il mondo. Cosa c’entra tutto questo con i bond del Venezuela? Poiché sono stati emessi sotto la legge americana, il Tribunale di New York riconosce solo le decisioni assunte dagli organismi accreditati a Washington. Insomma, la gestione del default spetta alle istituzioni guidate dalle opposizioni.

Proroga di 5 anni per reclamare interessi

La scorsa settimana, l’Assemblea Nazionale nelle loro mani ha prorogato di cinque anni al 2028 la clausola dello “statuto delle limitazioni” relativa ai bond del Venezuela in default. Tale clausola recita che, a distanza di sei anni dal mancato pagamento, i creditori perdono il diritto a reclamare gli interessi. Già dal prossimo novembre, quindi, non avrebbero avuto più titolo per pretendere gli arretrati e le cedole future. La nuova scadenza si sposta così alla fine del 2028. Una decisione del tutto simile era stata adottata nei mesi scorsi dal regime, ma il Comitato dei Creditori del Venezuela aveva pressato le opposizioni per replicarne la misura, al fine di renderla legalmente ufficiale per gli obbligazionisti.

E, se vogliamo, è arrivata un’altra novità teoricamente positiva per i creditori. Il Venezuela ha vinto il ricorso legale presentato contro Novo Banco per ottenere lo “scongelamento” di 1,5 miliardi di dollari di suoi asset. La banca portoghese è controllata dall’americana Lone Star. Maggiore la liquidità nelle casse di Caracas, più alte le probabilità che il governo (illegittimo) di Maduro torni a negoziare. In realtà, i numeri non depongono a favore di tale ottimismo. Il Venezuela è uscito dall’iperinflazione, ma continua a registrare tassi d’inflazione sopra il 400%. Non esporta praticamente quasi più petrolio e ne estrae in media sugli 800 mila barili al giorno, meno di un terzo dei livelli del 2014.

Default bond Venezuela, tempi lunghi per accordo

Le riserve valutarie sono ridotte all’osso, tra l’altro consistenti perlopiù in oro. Dunque, non esiste possibilità per una seria negoziazione con i creditori internazionali. Anche perché, non dimentichiamolo, il paese è sotto embargo degli Stati Uniti. Qualsiasi pagamento in dollari USA non può essere eseguito presso le banche fiduciarie americane. Addirittura, i bond del Venezuela sin dal febbraio del 2019 non possono essere neppure più negoziati sul mercato secondario. Gli scambi, pochissimi e per importi risibili, stanno avvenendo da anni sul circuito informale. I prezzi sono crollati a pochi centesimi, in quanto il mercato sconta non solo condizioni sfavorevoli da una futura negoziazione del debito, ma anche un accordo ancora lontano nel tempo.

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