E anche l’Arabia Saudita ha dovuto fare i conti con il crollo delle quotazioni del petrolio, di cui risulta ad oggi il primo esportatore mondiale e terzo produttore dopo USA e Russia. Mercoledì scorso, ha emesso Eurobond in dollari in tre tranche per complessivi 7 miliardi, ricevendo un ottimo riscontro sui mercati, dove la domanda si è attestata a 42 miliardi, sei volte l’offerta. Nel dettaglio, Riad ha emesso titoli con scadenza tra 5 anni e mezzo, altri tra 10 anni e mezzo e altri ancora a 40 anni.

Al termine del collocamento, ha comunicato dati migliori delle previsioni. Il bond a 5,5 anni ha spuntato un rendimento in area +260 punti base sopra l’omologo Treasury, quello a 10,5 anni a +270 e, infine, il rendimento del bond a 40 anni è stato del 4,55%.

Perché i bond potranno tradire e a svelare l’inganno è stata proprio un’emissione saudita

La guidance indicava spread rispettivamente a +315 e +325 bp e un rendimento del 5,15% per il bond a più lunga scadenza. Dunque, l’alta domanda ha abbassato notevolmente i costi in fase di emissione. Da notare come il quarantennale si sia collocato non molto sopra il 4,33% offerto quello stesso giorno dal bond in scadenza nel 2055 e negoziabile sul mercato secondario. Le scadenze sono state offerte rispettivamente per 2,5, 1,5 e 3 miliardi di dollari. Ricordiamo che il rating sovrano saudita si mostra relativamente elevato, con S&P ad assegnare al debito del regno il giudizio di “A-“, Fitch “A” e Moody’s “A1”. Facendo due conti, la tranche a 5,5 anni ha offerto il 2,79%, mentre quella a 10,5 anni il 3,33%.

Parliamo di rendimenti allettanti lungo l’intera curva, specie considerando che si tratti di titoli in dollari, soggetti a un rischio di cambio teoricamente contenuto. Ma le condizioni fiscali nel regno stanno peggiorando abbastanza velocemente. Del resto, il bilancio statale dipende ancora per il 60% dalle entrate petrolifere, che erano state stimate in 513 miliardi di rial (125,43 miliardi di euro), sulla base di quotazioni attese mediamente a 55 dollari al barile.

Adesso, le previsioni non ufficiali parlano di quotazioni medie nell’anno a 40 dollari, persino ottimistiche, stando ai dati di questa fase.

La crisi fiscale del regno

E così, Riad ha alzato a 100 miliardi di rial le emissioni autorizzate per quest’anno, al contempo elevando dal 30% al 50% il tetto del debito pubblico ammesso. Le riserve valutarie, frutto di anni di avanzi di bilancio accumulati fino al 2013, quando il prezzo del petrolio crebbe a livelli fino alla tripla cifra, sono scese dai 738 miliardi raggiunti nel settembre 2014 ai meno di 500 miliardi attuali. Queste risultano elevatissime rispetto al pil (oltre il 60%), ma il crollo delle quotazioni petrolifere crea forti pressioni su di esse. La compagnia petrolifera statale Aramco riesce a produrre a pochi dollari al barile, per cui matura profitti anche alle attuali quotazioni ai minimi dal 2002. Tuttavia, la compagnia è la gallina dalle uova d’oro che mantiene il bilancio pubblico e, quindi, le servono quotazioni nettamente superiori persino ai livelli di inizio anno per tenere in pareggio i conti del regno.

L’unica misura capace di attenuare la pressione sulle riserve, dando sollievo anche agli investitori titolari di debito saudita in valuta straniera e agli stessi conti dello stato, sarebbe la cessazione del “peg” con cui il rial viene ancorato al dollaro sin dal 1985. Essa avrebbe, però, l’effetto di svalutare il cambio, alimentando l’inflazione e, quindi, il malcontento popolare, per cui difficilmente verrà attuata, per quanto sarebbe capace di tagliare subito il deficit fiscale, atteso per quest’anno più che raddoppiare a oltre il 10%. Un dollaro più forte innalzerebbe le entrate petrolifere derivanti dalle esportazioni, una volta ridenominate in valuta locale. Lo fece la Russia nel 2014, evitando una crisi dei conti pubblici.

Ma i sauditi non intendono seguire questo passo, anche perché temono di perdere la fiducia dei mercati, i quali fanno affidamento proprio sul mantenimento del peg.

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