Il libro ordini, al termine della giornata di ieri, segnava 60 miliardi di dollari. A tanto sono ammontati gli interessamenti per il bond di Aramco, la compagnia petrolifera statale dell’Arabia Saudita. L’emissione si concluderà domani e dovrebbe consistere in 10 miliardi, suddivisi in 6 tranche di durata dai 3 ai 30 anni e cedole fisse, tranne per un triennale con cedola variabile. I titoli sono denominati in dollari USA. Il successo del primo collocamento della compagnia dovrebbe farci riflettere: se è vero che i capitali di tutto il mondo siano stati attratti dai numeri societari monstre, tra cui 111 miliardi di dollari di utile netto nel 2018, realizzati su ricavi per 356 miliardi e un Ebitda di 224 miliardi, è altresì vero che un ruolo lo starebbe giocando anche il recupero delle quotazioni petrolifere.

Il Brent si è apprezzato sui mercati internazionali del 40% e il Wti di oltre il 52% rispetto ai minimi toccati da entrambi a fine 2018. Al momento, il primo scambia a quasi 71 dollari, il secondo in area 64,50 dollari al barile.

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Se il mercato stesse comprando – oltre al rally già avvenuto, per quanto le quotazioni restino inferiori ai massimi toccati a inizio ottobre scorso – solide prospettive future per il greggio, avrà certamente fatto bene a buttarsi su Aramco, molto meno ad avere innescato un rialzo dei prezzi obbligazionari ai massimi da due anni e mezzo, spingendo i rendimenti sovrani e corporate in basso e alimentando una massa di altri 3.000 miliardi di dollari in appena 5 mesi con rendimenti sottozero. Il Bund a 10 anni è tornato a rendere negativamente, oscillando da qualche settimana intorno allo zero percento, mentre i rendimenti americani sulla medesima scadenza sono crollati dal 3,25% di novembre al 2,50% attuale, ma erano arrivati a un minimo del 2,39% a gennaio.

Corsa ai bond un errore?

Cosa abbia sostenuto i corsi obbligazionari è chiaro. Le principali banche centrali, a partire da Federal Reserve e BCE, si sono mostrate più accomodanti negli ultimi mesi, con la prima a segnalare che non alzerà più i tassi e la seconda che non avvierà la stretta monetaria per quest’anno.

I toni “dovish” sono arrivati dopo mesi di evidente rallentamento globale per la crescita, associato a un veloce processo di disinflazionamento delle principali economie, dovuto proprio al tracollo del petrolio. L’inflazione negli USA è scesa dal 2,9% di giugno-luglio dello scorso anno all’1,5% di febbraio. Nell’Eurozona, è passata dal 2,3% di ottobre all’1,4% di marzo. In Giappone, dall’1,3% di ottobre è crollata allo 0,2% di febbraio. Naturale che i rendimenti abbiano seguito: a rigore, i rendimenti a 10 anni attualmente si mostrano più alti, in termini reali, rispetto ai massimi dei mesi scorsi.

E, però, complessivamente le materie prime sono rincarate quest’anno di circa il 7,5%. Questo significa che parte della minore inflazione sarà recuperata nei prossimi mesi, anche perché il dollaro, valuta con cui si acquista il petrolio, non si è nel frattempo deprezzato, anzi è rimasto ai massimi dalla metà del 2017. Ora, la reflazione in sé sarebbe anche il segno che l’economia mondiale starebbe meno peggio di quanto avessimo pensato. I prezzi aumentano per effetto di una domanda tonica, almeno questo dovremmo immaginare. E se i consumi sono buoni, significa che l'”outlook” per l’economia mondiale non sia così male. Se così stessero le cose, però, la corsa all’obbligazionario di questi mesi sarebbe stata parzialmente ingiustificata. Meglio sarebbe (stato) puntare sull’azionario.

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L'”inganno” del petrolio

In realtà, le cose starebbero diversamente. Il petrolio è del 40-50% più costoso da dicembre per via della minore offerta, non della maggiore domanda in corso o attesa. Proprio 4 mesi fa, l’OPEC ha concordato un secondo taglio della produzione in due anni, pari a 800.000 barili al giorno per i membri aderenti, ad esclusione di Iran, Venezuela e Libia.

Altri 400.000 barili quotidianamente sono stati sottratti dalla Russia e alleati, per un totale di 1,2 milioni. A marzo, la produzione OPEC risultava scesa di 280.000 barili al giorno rispetto a febbraio a 30,4 milioni, ai minimi dal 2015 e accertando un taglio del 135% rispetto all’obiettivo fissato. Il calo è stato trainato dall’Arabia Saudita, che estraeva ogni giorno 11,1 milioni di barili a novembre e 10,1 milioni a febbraio. In appena un trimestre, quindi, Riad ha tagliato l’offerta di ben 1 milione di barili al giorno, un quarto in più di quanto non si fosse accordata l’intera organizzazione.

Parte di questa minore produzione continua ad essere compensata dal boom negli USA, dove le estrazioni quotidiane sono salite al nuovo record storico di 12,2 milioni a fine marzo, +500.000 quest’anno. Tuttavia, non basta. Pertanto, è la minore offerta globale a pompare i prezzi, ha ragione il presidente Donald Trump a twittare irato contro il cartello petrolifero, anche perché con un’economia in rallentamento si rischia uno shock negativo sui consumi, capace di acuire la frenata di USA, Eurozona e Giappone. Viste da questa angolatura, le cose si metterebbero solo parzialmente bene per il mercato obbligazionario, perché da un lato verrebbero confermati i timori sull’andamento dell’economia mondiale, dall’altro la reflazione renderebbe ancora meno generosi i rendimenti già infimi esitati e farebbe svanire le prospettive di rialzo dei corsi, infliggendo potenziali perdite agli investitori.

Questa fase potrebbe mostrarsi, comunque, temporanea. Probabile che lo stato di salute dell’economia mondiale non sia capace di reggere quotazioni stabilmente a 70 dollari, anche perché dagli USA le estrazioni aumenterebbero ulteriormente, minacciando le quote di mercato in Asia di sauditi e russi, in particolare, i quali non sarebbero più disposti ad auto-censurarsi per fare un regalo agli avversari. Non a caso, da Mosca sono arrivati segnali di contrarietà all’ipotesi di Riad di estendere il taglio e si parla di una cessazione dell’intesa da giugno in poi.

In fin dei conti, il primo taglio di fine 2016 non è stato in grado di sostenere stabilmente le quotazioni e solo le sanzioni comminate dagli USA all’Iran avevano alimentato il rally dello scorso anno. Né serve agli stessi sauditi forzare la mano, rischiando di ritrovarsi dinnanzi a un nuovo crollo da qui a pochi mesi. Non è detto, quindi, che la corsa ai bond si debba rivelare necessariamente errata, pur in presenza di un rialzo dell’inflazione, a patto che sia temporaneo.

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