Sono sedute difficili per i mercati finanziari e, in particolare, per i bond AT1 (Additional Tier 1), le obbligazioni subordinate bancarie. In Europa ne circolano per un controvalore superiore ai 250 miliardi di euro. In Italia, ve ne sono per 17,7 miliardi, stando ai dati della Banca d’Italia. Se vogliamo, rappresentano il frutto (avvelenato?) della crisi finanziaria mondiale del 2008. Prima non esistevano, sono stati inventati successivamente per consentire alle banche di emettere strumenti finanziari contabilmente a metà strada tra debito e capitale.

I bond AT1 sono così definiti perché aumentano il CET1, vale a dire il capitale primario. A seguito dell’annunciata fusione con UBS, questi titoli emessi da Credit Suisse saranno azzerati. E ciò ha scatenato polemiche e paure, dato che l’operazione avverrà senza un previo annullamento anche del capitale. Il sistema bancario elvetico non ha rispetto la gerarchia delle garanzie, sebbene l’Unione Europea abbia messo in chiaro che al suo interno varranno sempre le regole che conosciamo: azzeramento prima del capitale azionario e solo successivamente delle obbligazioni subordinate, a partire dai bond AT1, se necessario per i casi di risoluzione.

Neppure le grandi banche italiane sono state risparmiate dalle vendite. Il bond AT1 di Intesa Sanpaolo con cedola 6,375% (ISIN: XS2463450408) e prima call fissata per il 31 marzo 2028 è precipitato ad una quotazione inferiore ai 77 centesimi. Sfiorava gli 82 centesimi venerdì scorso e i 90 centesimi a inizio mese. A questo prezzo, il rendimento sarebbe intorno al 13,5% lordo all’anno nel caso di esercizio della call tra poco più di cinque anni. Ancora più alto risulterebbe il rendimento del bond AT1 di Unicredit con cedola 4,45% (ISIN: XS2356217039) e prima call fissata per il 3 giugno 2028. Ai 61,65 centesimi a cui quotava ieri alla Borsa di Lussemburgo, offrirebbe poco meno del 17% lordo all’anno con il rimborso tra cinque anni e qualche mese.

Paura irrazionale per bond AT1?

I bond AT1 non hanno formalmente una scadenza.

Tuttavia, chi li emette fissa un periodo “non callable” dopo il quale a scadenze regolari può esercitare la facoltà di rimborso alla pari del titolo. Gli obbligazionisti sinora si sono sempre aspettati che tali opzioni siano esercitate, indipendentemente dalle condizioni di mercato. Un tabù sfatato nel febbraio del 2019 da Santander, che decise di non rimborsare un’obbligazione subordinata alla prima data di reset per via dei maggiori costi che ciò le avrebbe comportato.

Il trend negativo di questi giorni spinge a pensare che il mercato, più che scontare l’azzeramento dei bond AT1, ne stia prezzando i rischi legati al mancato esercizio delle call fissate dagli emittenti. Ma non è detto che queste previsioni abbiano un fondamento razionale. Facciamo un esempio pratico. Alle attuali condizioni, se Unicredit dovesse rimborsare il suo titolo, dovrebbe rifinanziarsi sul mercato a tassi intorno al 4% per scadenze di 5 anni. Viceversa, il mancato rimborso le costerebbe intorno al 7,35% all’anno di interessi, dato che la cedola da fissa diverrebbe variabile e pari all’Euribor a 3 mesi più uno spread di circa 460 punti base.

Insomma, nei bond AT1 delle grandi banche italiane vi sarebbe valore, dato da quotazioni apparentemente troppo depresse rispetto alle reali condizioni del mercato obbligazionario per gli emittenti. E questo significherebbe che, superata la fase psicologica di paura, i prezzi dovrebbero recuperare il terreno perduto, indipendentemente dalla direzione che assumerà nel suo complesso l’obbligazionario domestico ed europeo.

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