Northvolt è il fallimento del Green Deal imposto dai governi

Il fallimento di Northvolt seppellisce il Green Deal sotto la coltre di un'ideologia imposta dai governi senza riscontro sul mercato.
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5 giorni fa
3 minuti di lettura
Northvolt simbolo del fallimento del Green Deal
Northvolt simbolo del fallimento del Green Deal © Licenza Creative Commons

Cosa succede quando l’ideologia si impone sul mercato? Che alla fine vince il mercato e l’ideologia viene seppellita sotto una coltre di fallimenti ai danni di consumatori, imprese e sistema economico. Il Green Deal ne è la prova lampante. Nessuno più ne parla come un dogma, salvo i partiti ambientalisti che vivono di quello. Poi si leggono i numeri di Northvolt e si capisce che qualcuno sia andato abbastanza storto negli ultimi anni a Bruxelles, dove un gruppetto di tecnocratici ha preteso di insegnare a 450 milioni di abitanti come si dovesse vivere.

Northvolt dal successo (sperato) alla polvere

Northvolt ha presentato ieri istanza di fallimento in Svezia, stato in cui ha sede.

Nessun clamore, visto che già a novembre aveva presentato negli Stati Uniti richiesta di adesione al Chapter 11, che è la legge americana che regola la gestione fallimentare di un’azienda. Era stata fondata nel 2016 da due ex manager di Tesla: Peter Carlsson e Paolo Cerruti. La svolta vera era arrivata solamente dopo la pandemia, quando l’Unione Europea si era messa in testa di salvare il pianeta con un piano per abbattere le emissioni inquinanti. Come? Andando “all in” sulla tecnologia elettrica. Poco importava che non disponessimo delle materie prime allo scopo. L’ideologia non sente ragioni.

Green Deal a colpi di sussidi

Nel tentativo di raggiungere la velleità salvifica, Northvolt veniva celebrata come realtà capace di renderci indipendenti dalla Cina nel perseguimento del Green Deal. E i sussidi statali e sovranazionali arrivarono copiosi. Un primo miliardo di euro venne dal Canada, mentre 5 miliardi da Banca europea per gli investimenti, Nordic Investment Bank e altri 23 operatori commerciali.

Quest’ultimo resta il più grande prestito green in Europa. L’entusiasmo attorno a questa azienda fu tale da spingere Volkswagen ad acquisire il 21% del capitale, seguita da Goldman Sachs al 19%.

In tutto, Northvolt era riuscita a raccogliere 13,8 miliardi di dollari. Puntava a conquistare una quota del 25% sul mercato delle batterie elettriche in Europa entro il 2030. I suoi piani di espansione prevedevano la costruzione di due gigafactory rispettivamente in Svezia e Germania, uno stabilimento in Canada e un impianto per il riciclaggio dell’energia in Polonia. Questi nordici sembravano saperci fare, tant’è che erano arrivati a raccogliere ordini per 55 miliardi di dollari. Ma ricordatevi, l’Europa non dispone di materie prime.

Governi sconnessi dal mercato

Ed è così che arrivò la realtà, facendo i conti con i numeri del mercato e non con le previsioni entusiastiche di politici e burocrati senza arte e né parte. Il 2023 già fu un anno terribile. Perdite a bilancio per 1,2 miliardi di dollari. Produzione sotto l’1% della capacità di 16 GWh. Lo scorso anno, le cose sono andate di male in peggio. Al 30 settembre scorso le celle prodotte ogni settimana erano solamente 20.000 contro un obiettivo di 100.000. Il mercato delle auto elettriche collassa, BMW annulla un maxi-ordine di 2 miliardi. Vengono licenziati 1.600 lavoratori, mentre si stimano a fine 2024 debiti per 5 miliardi. A gennaio di quest’anno, però, sarebbero esplosi a 8 miliardi.

Tutto questo con liquidità in cassa nell’ordine dei 30 milioni nel novembre scorso, cioè sufficiente a garantire l’operatività aziendale per una settimana.

I fallimenti sono il sale del capitalismo. Northvolt non fa eccezione da questo punto di vista. Semmai, sono gli scandinavi ad avere un’idea infallibile della società e persino delle realtà aziendali. Ma il dato saliente di questa storia è che il flop fosse quasi scritto sin dall’inizio. Il Green Deal è (stato) un programma imposto dai governi comunitari alle forze economiche senza alcun riscontro legato ai dati di mercato. I consumatori non volevano e non vogliono neanche oggi comprare auto elettriche per tutta una serie di ragioni, tra cui i costi, l’assenza di un’infrastruttura ramificata sui territori e la scarsa fiducia nella tecnologia. Per questo gli stati hanno pesantemente sussidiato l’industria green, spostando immense risorse verso una produzione incapace di soddisfare la domanda.

Northvolt vittima dell’ideologia di stato

Il fallimento della transizione energetica calata dall’alto è stato tale da avere costretto l’Unione Europea a correre ai ripari sin da subito. Cos’è il riarmo, se non il tentativo di spostare investimenti pubblici da un’industria rivelatasi inconsistente a una potenzialmente più proficua per l’economia continentale, al netto delle reali necessità di difesa? Northvolt è l’emblema della vittoria del mercato sullo statalismo. Non sono le leggi a stabilire chi debba comprare cosa e quanto, bensì il noioso incontro tra domanda e offerta. Banale da dirsi, ma evidentemente nell’Europa di oggi serve ricordarlo.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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1 Comment

  1. Sottoscrivo interamente quanto trattato nel suo articolo. Credo che l’auto elettrica possa raggiungere al massimo senza incentivi il 20% del mercato. Solo chi può ricaricare l’auto in proprio e compie itinerari di non più di 150 km medi può essere interessato, per gli altri vanno bene le ibride che in città inquinano pochissimo.

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