La ricerca che arriva dall’Inghilterra crea sicuramente ilarità, eppure c’è poco da ridere quando si parla di Covid. Stavolta il virus viene associato alla flatulenza, a quanto pare si può trasmettere anche attraverso i peti.

Covid e flatulenza, lo studio inglese

Questo Covid-19 si sta rivelando essere sempre più un elemento da affrontare con senso civico. L’indifferenza, l’ignoranza, e ora anche la maleducazione, rischiano di dargliela vinta. Se ancora si discute su un provvedimento che pare legittimo come il Green Pass, è proprio perché probabilmente non si è capito che tutti sono potenzialmente un pericolo in condizioni di pandemia, e quindi girare indisturbati per bar, ristoranti e altri luoghi pubblici (a nostro avviso il provvedimento andrebbe a rigor di logica esteso anche ai mezzi pubblici e alle chiese) significa far circolare il virus senza il minimo controllo.

E che dire ora della flatulenza? Espellere aria dal proprio corpo in pubblico è sicuramente un qualcosa di deplorevole, incivile e maleducato. E come se non bastasse, anche pericoloso. Una ricerca inglese infatti ha evidenziato che i peti possono essere veicolo di contagio del Covid. Gli scienziati però portano in questo caso ad esempio del fenomeno, un uomo che in Australia ha contratto il virus dopo essere entrato in una toilette e aver inalato i gas espletati dal predecessore che era uscito poco prima.

Covid e flatulenza, nulla è certo

Al momento, lo studio inglese è fermo al palo. La comunità scientifica non ha ancora accettato l’esito della ricerca, ci vorranno più prove per dimostrarne la fondatezza. Sta di fatto che, già a maggio, sempre in Australia, il medico Andy Tagg era giunto alle medesime conclusioni. Sappiamo che infatti il Covid è presente anche nelle feci, e secondo tale medico questo potrebbe essere un indizio del fatto che quindi il contagio può avvenire anche attraverso la flatulenza.

Ci sarà comunque bisogno di ulteriori prove per accertare la bontà della scoperta.

Potrebbe interessarti anche Vaccino Pfizer, dopo 6 mesi è meno efficace: terza dose più vicina? Cosa dice lo studio di Yale