La riforma delle pensioni forse non vedrà i natali nel 2024, ma se le promesse sono un debito, allora è probabile che il Governo Meloni entro la fine dei suoi 5 anni di legislatura, finirà con il produrre davvero la tanto agognata riforma. Perché fin dalla campagna elettorale delle ultime elezioni politiche, la promessa di ritoccare il sistema pensioni italiano, è stato un autentico cavallo di battaglia dei partiti che poi vinsero le elezioni. E a dare manforte a questa speranza dei lavoratori, le tante misure di cui si parla.

Che hanno tutte un minimo comune denominatore che risponde al nome di quota.

“Buonasera, ho sentito parlare di quota 96 come di una misura che tornerà a poter essere sfruttata adesso con il nuovo Governo. Ma davvero potranno andare in pensione le persone con 60 anni di età e 35 di contributi? E se fosse così, la quota 41 per tutti verrebbe accantonata? Vi chiedo questo perché ho 60 anni di età e credo di arrivare a 41 anni di contributi sul finire del 2024. Quindi sono interessatissimo alla riforma con queste due misure, anche con una sola di loro.”

Riforma pensioni: quota 96, quota 41 e quota 103, ma a che costo per i lavoratori?

La riforma delle pensioni tutto è tranne che una materia che offre certezze da dare ai contribuenti, ai lavoratori e ai nostri lettori. Come indicato in premessa, nel 2024 forse nulla accadrà e la speranza è che si arrivi alla fine dei 5 anni di Governo Meloni con novità vere e con una vera riforma. Però è vero che si parla con insistenza di pensioni a quota. Dalla proroga di quota 103 (l’unica cosa oggi probabile per il 2024, ndr), alla quota 96 o alla quota 41 per tutti. In ogni caso si sente l’aria di cambiamento, perché per esempio la quota 96 potrebbe essere un ritorno al passato, con una misura flessibile a partire dai 61 anni di età con 35 anni di contributi.

Ma sul principio di flessibilità ruota tutto il meccanismo riformatore. Perché flessibile è una misura che lascia la scelta al lavoratore di quando uscire dal lavoro. Ma se la scelta fosse tra uscire a 61 anni o a 67, senza penalizzazioni, non ci sarebbero dubbi e la scelta sarebbe una sola, c’è da giurarci. Ecco perché si lavora a misure che, per esempio, impongano un ricalcolo contributivo della prestazione. Che per lavoratori che hanno 18 anni o più di versamenti antecedenti il 1996, significa un taglio di assegno anche del 30%. In questo caso sì che ci sarebbe da scegliere tra una pensione più ricca ma a età avanzata, o una pensione più povera ma subito.

Penalizzazioni di assegno sulle pensioni future? Ecco quali

Come tutti sanno chi ha maturato carriere nell’ordine dei 18 anni di contributi già al 31 dicembre 1995, avrebbe diritto a un calcolo della pensione con il sistema misto. Ma la parte mista retributiva verrebbe calcolata per tutti i periodi di lavoro fino al 31 dicembre 2011. Da qui la grave perdita. Che sarebbe la stessa se anche la quota 41 per tutti, con la pensione senza limiti di età una volta arrivati a 41 anni di contributi, diventerebbe contributiva.

Purtroppo su questo dubbi non ce ne sono, perché penalizzare una possibile pensione prima, è alla base delle probabilità di riforma che ci sono oggi. Senza penalizzazioni, come dicevamo, mancherebbe di flessibilità la riforma. E se non è il contributivo, si parla di tagli lineari di assegno. Perché, per esempio, chi esce a 62 anni potrebbe dover accettare un taglio di assegno per ogni anno che manca ai 67 della pensione di vecchiaia. E se per esempio si arrivasse al 3% di taglio per anno, significherebbe che a 62 anni la pensione perderebbe il 15% rispetto ai 67.

Tagli che si aggiungerebbero a quelli oggettivi. Perché già oggi senza particolari tagli, lasciare il lavoro prima fa perdere soldi al diretto interessato.

Perché si interrompono prima i versamenti contributivi. Ma anche perché i coefficienti di trasformazione dei contributi in pensione, penalizzano chi lascia il lavoro prima.