Ormai tutte le vie riguardo al superamento della legge Fornero e alla nuova riforma delle pensioni portano ad una considerazione evidente. Pensioni e lavoro si stanno unendo nella discussione sulle nuove misure previdenziali da varare se non nel 2024 quanto meno in futuro. Infatti sembra sempre più probabile che il futuro della previdenza italiana vada nell’indirizzo di collegare le quiescenze alle attività lavorative di chi in pensione deve ancora andarci. Infatti ultimamente stanno prendendo piede due diverse ipotesi di nuove misure ed in entrambi i casi il lavoro non sarà secondario.

Sono molti i quesiti che arrivano alla nostra redazione che riguardano le ipotetiche nuove misure di pensionamento che il governo avrebbe intenzione di varare. Ecco alcuni e un nostro approfondimento riguardo a due misure che potrebbero davvero cambiare il modo di intendere la fine del lavoro per i contribuenti.

“Buonasera, mi potete gentilmente dare un approfondimento sul part time pensione che pare sia in procinto di essere adottato anche in Italia. Da qualche giorno se ne parla e volevo capire cosa bolle in pentola. Grazie.”

“Ho sentito dire che con il bonus Maroni i lavoratori verrebbero penalizzati. Il maggior stipendio che si riesce a spuntare per chi non va in pensione e resta al lavoro è minimo ed ha ripercussioni anche sulla pensione futura. Io sono interessato dal momento che nel 2024 completo i requisiti per quota 103.”

La pensione part time anche in Italia? ecco di cosa si tratta

Part time pensione e bonus contributivo per restare al lavoro sono le due misure oggetto del nostro focus quotidiano. Sono due misure, una solo ipotetica, l’altra già in funzione e probabilmente confermata per l’anno venturo. Lo sgravio contributivo inoltre potrebbe essere esteso anche ad altre misure rispetto alla sola quota 103 per cui vale oggi. Ma partiamo dal part time pensione.

Preso di sana pianta dai paesi scandinavi il modello pensione part time è entrato di diritto nel novero delle varianti che l’esecutivo sta studiando per mettere le mani sul sistema previdenziale e riformarlo. In pratica si pensa di copiare quel particolare meccanismo di pensionamento che si adotta in Svezia dove un lavoratore può scegliere di uscire piano piano dal mondo del lavoro riducendo gradualmente le ore di lavoro svolto durante l’anno. E prendendo una pensione commisurata alle ore in meno di attività, almeno dal punto di vista degli importi. Questa pensione part time infatti altro non è che una specie di pensione aggiuntiva ad uno stipendio ridotto per via del passaggio dal tempo pieno al tempo parziale. La misura nasce con l’obiettivo di favorire sia l’alleggerimento del carico di lavoro per i dipendenti più anziani e sia il ricambio generazionale.

Premio a chi rimanda la pensione o riduzione orario di lavoro con annessa pensione, ecco le novità previdenziali

Con la pensione part time si consente ad un lavoratore dipendente arrivato a 61 anni di età di poter scegliere di ridurre l’orario di lavoro fino al 50%. E prendendo il 50% della pensione maturata in modo tale da non perdere reddito. Così funziona in Svezia questa particolare misura e così l’Italia vorrebbe adottarla. Anche se probabilmente non dai 61 anni di età ma ad una età più avanzata che può essere 62 o 63 anni. Un lavoratore potrebbe andare a godere di una pensione in anticipo, anche se parziale. Non lasciando del tutto e immediatamente il lavoro. Ed anche fungendo da tutor per i nuovi assunti per le ore di lavoro in meno che lui andrebbe a svolgere. L’idea è rivoluzionaria, ma resta solo una ipotesi che deve ancora essere valutata, limata e se mai, varata.

Lo sgravio contributivo sul modello del bonus Maroni, ma non è vantaggioso come lo era la misura del governo Berlusconi

Una misura invece che è già attiva ma che potrebbe essere estesa a tante altre misure previdenziali in vigore è quella del premio sullo stipendio offerto a chi anziché andare in pensione resta in servizio.

Da questo punto di vista la misura sembra essere esattamente l’opposto della pensione part-time. Perché guarda poco al ricambio generazionale anche se è una misura che come il part-time pensione spinge i lavoratori a restare in servizio. Parliamo infatti dello sgravio contributivo in perfetto stile bonus Maroni che consentirebbe ai lavoratori che si trovano ad aver maturato il diritto alla pensione, a dover scegliere se restare in servizio con uno stipendio più alto, rinunciando alla pensione maturata per qualche anno.

Il nuovo bonus Maroni aumenta lo stipendio del 9,19% ma taglia la pensione futura

Il bonus Maroni all’epoca del governo Berlusconi che lo varò (Roberto Maroni era Ministro del Lavoro), offriva a chi restava in servizio anche con la pensione già maturata, un incentivo di oltre il 30% di stipendio in più al mese per tutti i mesi di extra permanenza al lavoro. Adesso la misura nata con l’ultima legge di Bilancio, vale solo per la quota 103 ed offre solo una maggiorazione mensile di stipendio pari al 9,19%. Infatti riguarda i lavoratori che nel 2023 completano 41 anni di contributi versati e 62 anni di età, ovvero i due requisiti utili alla quota 103. E per chi in queste condizioni resta a lavorare, dietro istanza all’INPS, offre il 9,19% di aumento di stipendio. Una percentuale che non è altro che la parte di contribuzione previdenziale a carico del lavoratore mese per mese. L’aliquota contributiva in vigore è il 33%. Questa è la percentuale di contributi sullo stipendio che un lavoratorre accantona. Ed il 9,19% è quella a suo carico (il resto lo versa il datore di lavoro).

Meno contributi versati meno si prende dopo il lavoro

Lo sgravio non fa altro che lasciare in busta paga il 9,19% dei contributi dovuti dal lavoratore mensilmente.

Ma oggi che si vive in epoca contributiva, ogni contributo alla pensione futura versato, finisce nel montante contributivo. Si tratta di un autentico salvadanaio dove finiscono tutti i soldi che un lavoratore mette da parte per la sua futura pensione. Un salvadanaio che si apre dopo l’uscita dal lavoro, rivalutato al tasso di inflazione e moltiplicato per dei coefficienti di trasformazione che sono più favorevoli quando l’età di uscita è più alta. Meno contributi (il 9,19% in meno al mese), significa meno pensione. L’allarme è già scattato come ci dimostra il nostro primo lettore. Va detto però che molto cambia da caso a caso. Perché bisogna valutare bene tutto, e considerare il cosiddetto costo-beneficio di qualsiasi misura. Ed anche di questa. Infatti è vero che si versano meno contributi. Ma uscire a 63 anni è già meglio come coefficiente di trasformazione, che uscire a 62 come permette la quota 103. Uscire a 64 anni è ancora meglio e così a salire fino ai 67 anni.