La pensione integrativa è inutile se si ha un buon posto di lavoro. Lo dicono gli esperti che hanno effettuato diverse simulazioni sull’importo della pensione pubblica di un lavoratore con alle spalle una carriera piena e continua. Soprattutto nel sistema di calcolo contributivo puro, meno conveniente rispetto a quello retributivo.

Paradossalmente, la pensione integrativa servirebbe solo a coloro che non possono far valere un buon montante contributivo. Cioè ai lavoratori con carriere discontinue, precarie o mal retribuite. Ragionamento che vale bene anche per le pensioni anticipate il cui importo sarà più basso rispetto alle rendite di vecchiaia.

Pensione integrativa, a chi serve veramente

Ma allora perché continuano a pompare con al previdenza complementare? Per rispondere a questa domanda basta chiedersi chi ha veramente interesse a spostare soldi dal Tfr ai fondi pensione. Se i gestori o i lavoratori.

Il sistema dei fondi pensione, che non è diverso da quello dei fondi di investimento, fa leva sul fatto che le pensioni non saranno più all’altezza delle aspettative. Il che è vero solo in parte. Se le pensioni di riferimento sono quelle liquidate fino a pochi anni fa interamente con il sistema di calcolo retributivo, non gli si può dare torto. Ma se il riferimento è quello attuale basato sul sistema contributivo puro, allora bisogna ragionare bene.

A parte il fatto, poi, che non è possibile sapere adesso come saranno le pensioni fra 30-40 anni, tuttavia, pur facendo delle simulazioni con le regole attuali, le cose sono sorprendentemente migliori da come le si vogliono far vedere. Dopo 40 anni di lavoro si potrà ottenere una pensione pari a circa il 70-75% rispetto alla media delle buste paga.

Il sistema di calcolo retributivo e contributivo a confronto

Con il sistema di calcolo retributivo puro si andava in pensione con un tasso di sostituzione anche più alto e con meno anni di lavoro alle spalle.

Con 40 anni di contribuzione (una eccezione per quei tempi), poi, si riusciva ad ottenere anche una rendita pari al 90-95% dello stipendio: la pensione era calcolata sulla base delle ultime retribuzioni percepite. Un sistema distorto che ha portato allo sconquasso del sistema pensionistico italiano e alla riforma Fornero nel 2012.

Detto questo, chi, oggi potrà vantare un montante contributivo alto, non avrà bisogno di nessuna integrazione alla pensione. Ad esempio, un lavoratore con una retribuzione media annua di 25 mila euro potrà contare su un montante contributivo di 330 mila euro dopo 40 anni di lavoro. A 67 anni di età otterrà una rendita di 18.900 euro (tasso di sostituzione pari al 75%) con le regole attuali.

La previdenza integrativa serve solo a chi non può permettersela

Viceversa chi non potrà vantare una carriera piena e un montante contributivo sufficiente prenderà una pensione più bassa. Ma questo dipende dalla stabilità del lavoro, dal livello dei salari e dalla continuità lavorativa. Cosa che nel sistema retributivo puro poteva essere compensata da un sistema di calcolo più favorevole.

Chiaramente la precarietà incide e determina l’importo finale della pensione. Ma non è con la previdenza integrativa che si risolve il problema. Anzi, senza soldi da destinare ai fondi pensione, non ci sarà manco quella.

Riassumendo, quindi, la previdenza integrativa proposta dai fondi pensione non è la strada giusta per chi non ha problemi di lavoro. Chi può vantare una buon contratto come lavoratore dipendente, soprattutto nel pubblico impiego, può stare tranquillo. La pensione integrativa non serve. A meno che non punti a ottenere qualcosa di più in vecchiaia.

I lavoratori che, invece, iniziano tardi a lavorare, non possono vantare carriere continue e ben retribuite. Costoro sì che avrebbero bisogno della previdenza integrativa. Ma non hanno abbastanza soldi (il Tfr) da destinare ai fondi pensione perché il loro lavoro è precario.