Nella sentenza numero 11547 dello scorso 4 giugno la Corte di Cassazione si sofferma nello spiegare i concetti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e di mobbing.   La sentenza fa seguito al ricorso presentato dal una dipendente licenziata per il riassetto organizzativo ed economico della sua impresa. Proprio su tale ricorso la Corte Suprema si sofferma sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo spiegando che tale licenziamento deve essere inerente alle ragioni che riguardano l’attività produttiva dell’azienda e al suo funzionamento.

Il giudice, quando si tratta si tale licenziamento, ha il potere di individuare si i motivi oggettivi sussistono o meno senza però sindacare sui criteri di gestione dell’impresa.     L’onere della prova di dimostrare che sia impossibile utilizzare il lavoro del dipendente per mansioni diverse spetta al datore di lavoro. In questi casi il datore di lavoro deve dimostrare o il blocco delle assunzioni o, ad esempio, la riduzione degli utili aziendali.     Sempre nella stessa sentenza la Corte di Cassazione parla anche dell’onere probatorio relativo al mobbing, poiché la stessa dipendente aveva sostenuto di essere stata vittima di mobbing.     Per la Corte il mobbing è una “condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione o l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”.     L’onere della prova in questo caso spetta al dipendente che deve dimostrare l’esistenza degli eventi lesivi nei suoi confronti e il nesso tra le condotte del datore di lavoro e l’evento dannoso.
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