“Gli animali si muovono, migrano, perché gli umani dovrebbero essere confinati nel territorio in cui sono nati?“, ha affermato Delphine Coulin. In un mondo all’insegna della globalizzazione come quello attuale è sempre più facile riuscire a comunicare con persone e aziende che si trovano in un posto molto lontano. Tante sono le aziende che decidono pertanto di espandere i propri orizzonti al di fuori dei confini nazionali, in modo tale da ampliare il proprio mercato e di conseguenza i propri profitti.

 Un modus operandi sempre più diffuso che non può comunque sottrarsi alla lente di ingrandimento del Fisco. Anche nel caso in cui si lavori all’estero, infatti, bisogna pagare le tasse. Ma come funziona? Ecco i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate in merito.

Lavoro all’estero per azienda italiana: chiarimenti sul trattamento fiscale

Tanti sono gli italiani che per lavoro vivono al’estero. Ma quest’ultimi devono pagare le tasse in Italia oppure no? Ebbene, per fornire una risposta a tale quesito bisogna far riferimento innanzitutto al concetto di residenza fiscale. A tal proposito si ricorda che sono ritenuti fiscalmente residenti nel nostro Paese le persone che per almeno 183 giorni all’anno, 184 giorni negli anni bisestili, risultano iscritte presso l’Anagrafe delle persone residenti. In alternativa devono avere il domicilio o dimora abituale nel nostro Paese o essersi trasferiti in un Paese con un regime fiscale privilegiato.

Soffermandosi sul caso del trattamento fiscale delle retribuzioni erogate al lavoratore distaccato all’estero sono giunti di recente importanti chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima, infatti, attraverso la risposta numero 428 del 2023 ha spiegato che:

l’articolo 51, comma 8­ bis, del Tuir, in deroga a quanto stabilito dai precedenti commi del medesimo articolo 51, prevede che “il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali di cui all’art. 4, comma 1, del decreto legge 31 luglio 1987, n. 317, convertito dalla legge 3 ottobre 1987, n. 398». Ebbene, “la disciplina fiscale di cui all’articolo 51, comma 8­ bis, del Tuir trova applicazione a condizione che:

  • il lavoratore, operante all’estero, sia inquadrato in una delle categorie per le quali il decreto del citato Ministero fissa la retribuzione convenzionale;
  • l’attività lavorativa sia svolta all’estero con carattere di permanenza o di sufficiente stabilità;l’attività lavorativa svolta all’estero costituisca l’oggetto esclusivo del rapporto di lavoro e, pertanto, l’esecuzione della prestazione lavorativa sia integralmente svolta all’estero;
  • il lavoratore nell’aro di dodici mesi soggiorni nello Stato estero per un periodo superiore a 183″.

Soffermandosi sul secondo requisito è bene sottolineare che per la determinazione convenzionale del reddito di lavoro dipendente è necessario che l’attività lavorativa venga effettuata all’estero come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro.

A tal fine è fondamentale che venga stipulato un contratto ad hoc e che il lavoratore venga collocato in un speciale ruolo estero. La collocazione non risulta necessaria nel caso in cui il rapporto di lavoro venga instaurato direttamente con una società estera.

In caso di dubbi, comunque, si consiglia di leggere la risposta dell’Agenzia delle Entrate prima citata e rivolgersi ad un professionista in materia. In questo modo è possibile sapere se e come pagare le tasse nel caso in cui si lavori all’estero per un’azienda italiana.