La sanatoria dei migranti irregolari ha fatto flop. Colf, badanti e immigrati preferiscono restare nella clandestinità e lavorare in nero.

La sanatoria, fortemente voluta dalla ministra alle Politiche Agricole Teresa Bellanova, varata con il decreto Rilancio, non ha riscosso il successo tanto atteso riguardo, sia alla regolarizzazione di migliaia di colf e badanti con permessi scaduti, sia l’emersione del lavoro nero nel nostro Paese.

Meno di un immigrato su tre è stato regolarizzato

Alla fine di luglio . stando ai dati del Viminale – erano 148.594 le domande di regolarizzazione presentate dagli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, di cui 128.179 riguardanti rapporti di lavoro domestico e 19.875 relative ai lavoratori subordinati dei comparti agricoltura e pesca.

 Numeri ben lontani dai 600 mila stranieri irregolarmente presenti in Italia e che il Ministero delle Politiche Agricole pensava di mettere in regola. Un’occasione persa- hanno puntualizzato gli esperti di immigrazione -. “Doveva essere la volta buona per riportare alla luce del sole un mondo di oltre 600mila invisibili, con vantaggi per l’integrazione e la sicurezza sanitaria, ma l’occasione è stata sprecata”.

Cosa non ha funzionato

Ma cosa non ha funzionato? In primo luogo – sostengono gli esperti – a intralciare la procedura di regolarizzazione sono le norme e la burocrazia contenute e derivanti dal decreto Rilancio. La legge ha infatti fissato alcuni requisiti tassativi da possedere per fare domanda di regolarizzazione, come quello di riuscire a dimostrare che si stava già in Italia prima dell’8 marzo 2020, cioè prima del lockdown. Non solo, la norma prevede anche che non bisogna aver lasciato l’Italia dopo l’8 marzo 2020 e che non sia giunto provvedimento di espulsione o siano incorso indagini penali per reati di particolare gravità. Le domande andavano quindi presentate in uffici diversi a seconda se si trattava di cittadini comunitari (presso l’Inps) o extracomunitari (presso le Questure).

E come se non bastasse, il datore di lavoro si sarebbe autodenunciato stipulando un regolare contratto retroattivo di lavoro subordinato con tanto di retribuzione convenuta non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo di lavoro di riferimento.

La sanzione di 400 euro

Ma quello che più di ogni cosa ha bloccato le regolarizzazioni è stata la richiesta di pagamento di una “sanzione” pari a 400 euro, oltre a un forfait per i contributi pregressi (ancora da definire) nel caso il datore di lavoro avesse voluto regolarizzare una posizione finora in nero. Stessa procedura doveva essere seguita dal lavoratore che potrebbe non avere avuto un datore di lavoro disponibile o averne avuto più di uno. In questo caso il migrante ha presentato la domanda da solo presso la Questura chiedendo un permesso di lavoro temporaneo della durata di 6 mesi finalizzato alla ricerca di un lavoro.

Le complicanze burocratiche

Insomma, un vero e proprio ginepraio di norme, paletti e cavilli normativi a cui si aggiungono quelli burocratici e dei tempi di rilascio dei documenti. Oltre al fatto che i migranti sbarcati in Italia prima del 8 marzo 2020 non hanno potuto accedere alla regolarizzazione. Un caos, in perfetto stile italiano, da scoraggiare anche i più avveduti ad avventurarsi in una campagna di regolarizzazione così concepita. Tant’è che ad accedere alla regolarizzazione sono state più che altro colf e badanti, mentre gli immigrati dediti alla manodopera agricola, quella che realmente serviva a causa dell’emergenza covid-19, sono rimasti tagliati fuori. Del resto, laddove i rapporti di lavoro sono di breve durata e vi è alta mobilità, le procedure di regolarizzazione e stabilizzazione di per sé non hanno efficacia. Ma è del tutto evidente che il governo ha agito principalmente per raccogliere fondi, più che per mettere a posto le cose.