Tutti parlano di pensione integrativa, della necessità di assicurarsi una rendita supplementare al momento della cessazione dell’attività lavorativa. Il che va bene ed è giusto in un contesto dove vi sono disponibilità economiche e di risparmio. Ma non dove mancano soldi. Cosa vuol dire questo?

Paradossalmente, la pensione integrativa serve solo a coloro che non hanno la possibilità di ottenere in futuro una pensione dignitosa da parte dell’Inps. In pratica ai lavoratori con carriere discontinue, precarie o mal retribuite.

Per chi invece potrà vantare un buon monte contributivo, e una retribuzione piena, la pensione integrativa sarà una cosa in più. Di fatto, per molti, inutile.

Previdenza complementare, serve veramente o no?

Ma allora perché continuano a pompare con la necessità della previdenza complementare? Il punto – dicono gli esperti – è che rispetto al passato le pensioni saranno più basse. Una volta entrato a regime il sistema contributivo per tutti, fra una decina d’anni, la rendita sarà calcolata solo sulla base di quanto versato e non anche sulla retribuzione percepita come avviene adesso ancora per molti lavoratori.

Il sistema dei fondi pensione, che non è diverso da quello dei fondi di investimento, fa leva sul fatto che le pensioni non saranno più all’altezza delle aspettative. Ma quali aspettative? Se le pensioni di riferimento sono quelle liquidate fino a pochi anni fa interamente con il sistema di calcolo retributivo, i fondi hanno ragione. Ma se il riferimento sono le pensioni i fondi hanno torto.

A parte il fatto, poi, che non è possibile sapere adesso come saranno le pensioni fra 20-30 anni, ma pur facendo delle simulazioni con le regole attuali, le cose sono sorprendentemente migliori da come le si vogliono far vedere. Dopo 40 anni di lavoro, ad esempio, con il sistema di calcolo contributivo puro e con le regole attuali, si potrà ottenere una pensione di circa il 70-75% rispetto alla media degli stipendi.

Il sistema retributivo e contributivo

Con il sistema di calcolo retributivo puro si andava in pensione con un tasso di sostituzione medio simile, ma si usciva prima dal lavoro. Con 40 anni di contribuzione (una eccezione per quei tempi), poi, si riusciva ad ottenere anche una rendita pari al 90-95% dello stipendio. Un livello decisamente più alto e anomalo che i fondi pensione, però, adottano come riferimento per indurre i lavoratori di oggi a rivolgersi a loro destinando il Tfr.

Detto questo, chi, anche fra i giovani lavoratori potrà vantare un montante contributivo alto, non avrà bisogno di nessuna integrazione alla pensione. Ad esempio, un lavoratore con una retribuzione media annua di 25 mila euro potrà contare su un montante contributivo di 330 mila euro dopo 40 anni di lavoro. A 67 anni di età otterrà una rendita di 18.900 euro (tasso di sostituzione pari al 75%) con le regole di adesso.

Ovviamente chi non potrà vantare una carriera piena e un montante contributivo sufficiente prenderà una pensione più bassa. Ma questo dipende dalla stabilità del lavoro, dal livello dei salari e dalla continuità. Cosa che nel sistema retributivo puro poteva essere compensata e mitigata da un sistema di calcolo più favorevole. Bastava infatti lavorare e ottenere un retribuzione alta negli ultimi 10 anni di carriera per recuperare eventuali mancanze derivanti buchi contributivi e periodi di inattività.

Chiaramente la precarietà di oggi incide e determina, più che in passato, l’importo finale della pensione futura. Ma era giusto e più corretto il sistema di allora, o quello di adesso?

La pensione integrativa non è per tutti

Riassumendo, quindi, la previdenza integrativa proposta dai fondi pensione non è la strada giusta in senso assoluto. Chi può vantare una buon contratto di lavoro e uno stipendio medio, può stare tranquillo perché avrà la pensione.

Non deve preoccuparsi di destinare il Tfr ai gestori dei fondi per ottenere un livello adeguato di rendita. A meno che voglia ottenere qualcosa di più accollandosi dei rischi.

I lavoratori che, invece, iniziano tardi a lavorare, e che non possono vantare carriere continue e ben retribuite avrebbero più bisogno della previdenza integrativa. Ma non hanno abbastanza soldi (il Tfr) da destinare ai fondi pensione perché il loro lavoro è precario. Chi, ad esempio, ha un contratto di lavoro a tempo determinato o è precario nella scuola e non ha certezza del posto fisso, difficilmente riuscirà nell’impresa di assicurarsi una integrazione alla pensione. Insomma, dice il proverbio, in questo caso: chi ha il pane non ha i denti. E viceversa.