La Corte di Cassazione con la sentenza numero 5031 del 2016 ha stabilito che l’indennità di accompagnamento può essere riconosciuta anche per patologie di carattere neurologico o mentale.

Ovviamente per vedersi riconoscere la prestazione la patologia deve essere grave ma la capacità di compiere gli elemetari atti della vita quotidiana non pone in discussione il diritto al beneficio.

L’indennità di accompagnamento è una prestazione assistenziale regolata dalla legge numero 18 del 1980 che viene erogata agli invalidi civili residenti in Italia che si trovano nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto di un accompagnatore o che non sono in grado di compiere gli atti della vita quotidiana.

Per il riconoscimento del beneficio non sono previsti limiti minimi o massimi di età.

Secondo la Corte di Cassazione, quindi, l’indennità di accompagnamento va riconosciuta anche a coloro che, pur essendo capaci di compiere gli atti della vita quotidiana, necessitano in ogni caso della presenza costante di un accompagnatore per la presenza di gravi disturbi nella sfera intellettiva, cognitiva o volitiva a causa di stati patologici gravi o a gravi carenze intellettive tali da non renderli autonomamente in grado di svolgere tali atti nei modi o nei tempi appropriati per salvaguardare la propria salute e la propria dignità personale senza porre in pericolo sè e altri.

La capacità di compiere i gesti quotidiani, quindi, non va intesa soltanto in senso fisico ma anche come capacità di intendere il significato dell’atto che si sta compiendo. L’incapacità richiesta per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento, quindi, non va  rapportata al numero di atti che il soggetto è in grado di compiere ma anche al fatto che il soggetto ne comprenda la portata.

L’indennità di accompagnamento, quindi, secondo la Suprema Corte, va riconosciuta anche ai malati psichici che non sono in grado di autodeterminarsi.