Il credito d’imposta introdotto dall’art. 28 del decreto Rilancio, a fronte dell’ammontare mensile del canone di locazione di immobili a uso non abitativo a favore di alcuni soggetti esercenti attività d’impresa, arte o professione, presenta una lacuna di non poco conto che si ritiene utile portare in evidenza ai lettori ed agli addetti ai lavori, nella speranza che venga colmata in fase di conversione in legge. Ma andiamo con ordine.

Con l’intento di “contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, con il decreto Rilancio (decreto-legge n. 34 del 2020) il legislatore, ha istituito, in favore di soggetti esercenti attività d’impresa, arte o professione, con ricavi o compensi non superiori a 5 milioni di euro nel periodo d’imposta 2019 (salvo che si tratti di strutture alberghiere e agrituristiche l’agevolazione è indipendente dal volume d’affari), un credito d’imposta nella misura del 60% dell’ammontare mensile del canone di locazione, di leasing o di concessione di immobili ad uso non abitativo destinati allo svolgimento dell’attività industriale, commerciale, artigianale, agricola, di interesse turistico o all’esercizio abituale e professionale dell’attività di lavoro autonomo.

Tra i beneficiari vi rientrano anche gli enti non commerciali, compresi gli ETS (enti terzo settore) e quelli religiosi civilmente riconosciuti, in relazione al canone di locazione, di leasing o di concessione di immobili ad uso non abitativo destinati allo svolgimento dell’attività istituzionale

Il beneficio scende al 30% dei relativi canoni in caso di contratti di servizi a prestazioni complesse (nei quali oltre alla messa a disposizione di vani ad uso ufficio viene fornita una ulteriore serie di servizi aggiuntivi) o di affitto d’azienda, comprensivi di almeno un immobile a uso non abitativo destinato allo svolgimento delle menzionate attività.

La condizione da rispettare: e se manca il dato storico?

Il comma 5 dell’art.

28 in esame, tuttavia, pone una condizione indispensabile da rispettare al fine di godere del beneficio. In essa si stabilisce che il credito d’imposta è commisurato all’importo versato nel periodo d’imposta 2020 con riferimento a ciascuno dei mesi di marzo, aprile e maggio e per le strutture turistico ricettive con attività solo stagionale con riferimento a ciascuno dei mesi di aprile, maggio e giugno.

L’agevolazione spetta però a condizione che sia verificata “una diminuzione del fatturato o dei corrispettivi nel mese di riferimento di almeno il 50% per cento rispetto allo stesso mese del periodo d’imposta precedente”. Quindi, ad esempio, se il fatturato di aprile 2019 è stato di 50.000 euro, ne consegue che il credito d’imposta per il canone di aprile 2020 spetterà laddove in questo stesso mese sia stato registrato un fatturato di 25.000 euro o di importo inferiore.

Ed è proprio su questo punto che occorre evidenziare l’aspetto critico della misura, poiché chi, ad esempio, ha iniziato attività dopo il mese di giugno 2019, sembrerebbe tagliato fuori dal beneficio, poiché non avrà il dato storico di riferimento per verificare la sussistenza o meno della suddetta condizione.

Ci si aspetta che la lacuna venga colmata in sede di conversione in legge del decreto, perché se così non fosse si genererebbe una disparità di trattamento di notevole rilievo soprattutto in questo periodo di crisi. Inoltre se così non fosse verrebbe meno la finalità del beneficio che come detto è quella di “contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”.