Quanto debito pubblico avremo alla fine del 2020? Per quanto sia un po’ presto per tirare le somme, confortati anche dalle stime di Mazziero Research, possiamo affermare che la risposta sia 2.600 miliardi, miliardo più o miliardo meno. Rispetto al 2019, un incremento di ben 190 miliardi. L’emergenza Covid ha fatto esplodere ovunque le emissioni di titoli di stato per affrontare la crisi sanitaria ed economica. Nessuna eccezione in Italia, che oltre ad essere stata la prima economia occidentale colpita a marzo dalla pandemia, era quella considerata già a rischio sul piano fiscale, dato l’enorme debito pubblico accumulato, pari al 135% del pil.

Il rapporto salirà in area 160% a fine anno.

Il debito pubblico italiano corre verso i 2.600 miliardi

Da quando è iniziato il nuovo millennio, di debito pubblico ne avremo accumulato per altri 1.269 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto all’eredità lasciataci dagli anni Novanta. Nel frattempo, il prodotto interno lordo nominale è cresciuto solamente di 475 miliardi, cioè di circa 2,6 volte in meno. Possiamo consolarci con il brutto trend della Francia, che nello stesso frangente avrà messo a segno un aumento del debito di 1.750 miliardi, a fronte di appena +800 miliardi per il pil. Nel caso di Parigi, il debito pubblico in valore assoluto a fine anno risulterà all’incirca triplicato rispetto ai livelli di inizio millennio.

La Spagna, se vogliamo, ha fatto di peggio: dai 362 miliardi di fine 1999, quest’anno dovrebbe salire sui 1.300 miliardi, quasi quadruplicando le sue passività. Capiamo bene perché la Germania ci guardi inorridita, per quanto anch’essa abbia raddoppiato il suo indebitamento nominale, pur a fronte di una crescita del pil (sempre nominale) quasi di ugual ritmo. La verità è che limitandoci alle prime quattro grandi economie dell’Eurozona, in poco più di 20 anni abbiamo assistito a un’esplosione di debito pubblico per circa 5.500 miliardi, il 50% dell’intero pil dell’Eurozona.

Dal Recovery Fund a un nuovo assaggio di austerità fiscale

Questa tendenza non farà che accentuarsi dopo il Covid. Gli europei hanno vissuto due grandi crisi in poco più di un decennio e l’idea di imporre ai cittadini-contribuenti ulteriori sacrifici per fare quadrare i bilanci, per quanto razionale sia, non potrà trovare facile e immediata applicazione quasi in nessuno stato, perché porterebbe a una crisi politica irreversibile nell’unione monetaria, quando già dopo il 2008-’09 l’euro-scetticismo si è impennato e ha preso ovunque persino in latitudini insospettabili, come l’Italia e la stessa Francia.

Ma i debiti esistono per davvero e andranno ripagati. Per questo, a luglio il Consiglio europeo, obtorto collo, ha varato il Recovery Fund”, un fondo comune da 750 miliardi di euro per sostenere il rilancio delle economie UE dopo l’emergenza e in buona parte composto da sussidi, cioè prestiti a fondo perduto. Si tratta di una prima forma di mutualizzazione dei debiti tra i paesi dell’euro (e non solo), una mossa obbligata per evitare la crisi fiscale in uno o più membri a rischio, Italia in testa. Grazie a questa misura di portata in sé storica – sulla realizzazione pratica dovremo vedere – la percezione del rischio sulla tenuta dell’Eurozona è diminuita e ciò sta consentendo anche agli stati fiscalmente più deboli di emettere debiti a costi contenuti.

Recovery Fund, l’Italia di Conte dorme e la Francia di Macron ha già pronto il piano

Tutti beneficiano dell’ombrello offerto dagli stati più solidi, come Germania, Olanda e Austria, i cui rating altissimi sono assegnati anche alle emissioni comuni. In un certo senso, l’affidabilità dei tedeschi garantisce per i debiti italiani, francesi e spagnoli, cioè stiamo avvalendoci di una vera e propria “fideiussione” offertaci dal Nord Europa. Questo sostegno, tuttavia, non può arrivare gratis, altrimenti l’euro diverrebbe la sommatoria tra governi “frugali” e fessi e altri “spendaccioni” e furbi.

Il “prezzo” da pagare sarà non tanto il pagamento degli interessi sui prestiti ricevuti, peraltro a carico perlopiù degli stati economicamente più forti, quanto l’assoggettamento a piani di consolidamento fiscale negli anni successivi alla fine della pandemia. L’ottemperanza non sarà pretesa immediata, bensì a ripresa avvenuta. Verosimilmente, dopo il 2023 torneremo a stringere la cinghia seriamente. Chiunque vinca le prossime elezioni politiche in Italia è avvertito.

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