Non passa anno senza che in Italia non si parli di nuova riforma delle pensioni. Ed è così anche stavolta. In previsione della scadenza per la sperimentazione triennale di quota 100, la politica cerca il modo di transitare il mercato del lavoro alla legge Fornero senza traumi. I sindacati propongono che i lavoratori possano andare in pensione già all’età di 62 anni, invocando flessibilità. La Lega fa loro da sponda, proponendo una soluzione di possibile compromesso: in pensione con 41 anni di contributi, purché per un periodo di almeno un paio di anni muniti anche di 63 anni di età.

Sarebbe nei fatti una quota 104 mascherata, che lascerebbe il passo successivamente a una quota 41 sic et simpliciter.

Altra ipotesi in voga in questi giorni sarebbe di consentire ai lavoratori di andare in pensione a 62 anni di età, se in possesso di almeno 25 anni di contributi. Ma l’assegno sarebbe liquidato interamente con il metodo contributivo. Il suo importo risulterebbe mediamente del 25-30% più basso di quello che a 67 anni sarebbe determinato con l’assegno interamente retributivo.

E’ giusto porre attenzione al tema delle pensioni, ma il problema fondamentale dell’Italia è che nessun governo riesce a concentrarsi abbastanza sul mercato del lavoro. Siamo tra i paesi OCSE con la più bassa occupazione. Tra i 15 e i 64 anni lavorano solamente in 58 su 100. In Germania, si supera il 75%. La media europea è superiore ai due terzi. Abbiamo pochi lavoratori e troppi pensionati. Il rapporto è di 602 pensionati da lavoro per ogni 1.000 lavoratori. A dispetto delle credenze, il rapporto è nettamente migliorato negli ultimi venti anni. All’inizio del millennio, c’erano 757 pensionati da lavoro per ogni 1.000 lavoratori.

Pensionati e lavoratori, dati allarmanti

Gran parte del calo è arrivato con l’entrata in vigore della legge Fornero. Ora, possiamo fare tutte le chiacchiere che vogliamo, ma dobbiamo tenere presente un dato fondamentale: i pensionati li mantengono i lavoratori.

Se i primi aumentano e i secondi no, abbiamo un problema. E nessuno pensi che basti mandare in pensione un lavoratore per liberare un posto di lavoro. Ad esempio, per ogni 100 pensioni liquidate con quota 100 si sono liberati meno di 23 posti di lavoro. I 73 restanti sono stati posti soppressi. Dunque, il pensionamento anticipato tende a ridurre l’occupazione, anziché accrescerla o almeno mantenerla invariata.

Le cose peggioreranno con le tendenze demografiche in atto. Da qui al 2035, l’ISTAT stima che le persone in età lavorativa diminuiranno di 5 milioni. Furbescamente, se riuscissimo a mantenere i medesimi posti di lavoro alzeremmo il tasso di occupazione al 67%, ponendoci in linea con l’attuale media europea. Ma sarebbe una vittoria di Pirro. Questi 5 milioni di persone in meno tra 15 e 64 anni non scompariranno, ma diventeranno semplicemente nuovi pensionati. Chi li mantiene?

A completamento del ragionamento, dobbiamo anche segnalare come da inizio millennio fino alla pandemia i redditi da pensione siano cresciuti il doppio dei redditi da lavoro: 70% contro 35%. Questo significa che l’emergenza pensioni sia più grave di quanto pensiamo: i costi per mantenere i pensionati corrono molto più velocemente dei redditi di chi paga i loro assegni. I contributi versati crescono in valore assoluto della metà rispetto alle pensioni di anno in anno. Di questo passo, il fallimento dell’INPS sarebbe solo una questione di tempo. Pensare solo a come mandare in pensione i lavoratori senza interrogarsi su come aumentare l’occupazione e i redditi è da miopi. Sindacato e politica portano sulle spalle responsabilità storiche gravissime in tal senso. E sarebbe l’ora che espiassero le loro colpe rimediando con misure lungimiranti.

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