Togliere ai ricchi per dare ai poveri, o meglio togliere ai vecchi pensionati per dare ai giovani lavoratori. Solo così si potrà rimettere in equilibrio un sistema economico destinato inesorabilmente a implodere. Sotto il peso di rendite pubbliche, spesso ingiuste e concesse allegramente per scopi politici e promesse elettorali, e contestualmente appesantito dalla mancanza di contributori, cioè da quella manodopera giovanile che sempre più manca al nostro Paese.

Il risultato è sotto i nostri occhi: non si fanno più figli da decenni e il problema della denatalità, accompagnato da quello dell’invecchiamento, sta bruciando la candela da ambo le parti.

Le carenze di manodopera, che le associazioni di imprese denunciano da tempo, diventeranno sempre più pesanti. Fra meno di trent’anni, cioè nel 2052, il rapporto tra ultra sessantacinquenni e 20-64 enni raggiungerà il 78% contro il 54% della media Ocse.

Tagliare le pensioni e alzare gli stipendi

Ma perché non si fanno più figli? Questione di costi, di soldi che non ci sono, perché destinati in maggior parte al welfare, cioè a sanità e pensioni. Una giovane coppia che lavora, ad esempio, riesce oggi a mala pena a pagarsi l’affitto e a mettere insieme il pranzo con la cena. Una coppia di pensionati medi, invece, può permettersi tranquillamente, salvo complicazioni di salute, un tenore di vita superiore alla media dei Paesi europei.

Per far ripartire l’Italia ed evitare un’implosione demografica è necessario che le risorse economiche siano redistribuite in maniera sana ed efficiente fra le famiglie. Perché gli errori del passato hanno prodotto e stanno producendo storture ed evidenti diseguaglianze che oggi pagano i giovani con la disoccupazione, il precariato o le retribuzioni da fame. Le pensioni calcolate in base al sistema retribuivo hanno causato nel tempo una profonda spaccatura fra chi vive di rendita e chi vive di lavoro. Al punto che c’è oggi chi prende più di pensione pubblica che di lavoro.

Questo a causa del sistema di calcolo delle pensioni distorto che produce conseguenze ancora oggi sulla popolazione. Lo si capì nel 1995 quando il governo Dini lo abolì, ma senza (purtroppo) intervenire subito e di netto, ma solo in maniera graduale nel tempo. Ci vorrebbe adesso – come ha detto Renato Brunetta, presidente del CNEL – una rivoluzione per ristabilire il giusto equilibrio:

aver concesso per decenni pensioni non sostenute da un corrispondente gettito contributivo sta alla radice, non solo del disavanzo pensionistico, ma anche di gran parte del debito pubblico”.

Il conto lo paga chi lavora

Sicché, l’Italia – come ravvisa l’Ocse, è stata particolarmente generosa con i suoi pensionati. Al punto che la sua spesa pensionistica non ha pari all’interno dell’area Ocse: sommando spesa pubblica e privata si raggiunge il 17% del Pil, quasi il doppio della media, che è al 9,2%. Per sostenere questi costi sarà sempre più necessario impedire ai giovani lavoratori di andare in pensione o meglio di andarci non prima di aver lavorato 50 anni (e già si parla di quota 50).

Uno sfruttamento bello e buono se si pensa che in passato la classe politica ha concesso pensioni a lavoratori dopo solo 19 anni 6 mesi e un giorno di lavoro. Quando oggi servono più del doppio di anni di contributi per uscire in anticipo prima dei 67 anni di età. Sono stati commessi enormi errori che, purtroppo, stiamo pagando adesso e pagheranno le generazioni future. Non solo restando al lavoro più a lungo, ma anche rinunciando a una famiglia a fare figli e metter su casa.

E’ tutta una questione di soldi, alla fine, di potere economico che è stato dirottato sulla popolatine anziana a scapito di quella giovane. E non parliamo delle pensioni minime, ma di quelle medio-alte che in Italia sono molte.

Statisticamente sono circa la metà quelle superiori a 4 volte l’importo del trattamento minimo (2.555 euro al mese). I recenti interventi del governo Meloni in ambito pensionistico non bastano e di questo passo non ci sarà inversione di tendenza. Secondo l’Ocse

la concessione di prestazioni relativamente elevate a età relativamente basse, come nel caso delle quote, contribuisce alla seconda spesa pensionistica pubblica più alta tra i paesi Ocse, pari al 16,3% del Pil nel 2021”.

Anche se l’aliquota contributiva è molto elevata, le entrate derivanti dai contributi pensionistici rappresentano solo circa l’11% del Pil, richiedendo finanziamenti sostanziali dalla fiscalità generale.