La sentenza a favore dei dipendenti pubblici era nell’aria e la Corte Costituzionale non ha tradito le aspettative, confermando quanto esplicitato con una precedente decisione del 2019. Il Trattamento di fine servizio (TFS) non può essere corrisposto in ritardo a coloro che vanno in pensione per raggiunti limiti di età o di servizio. La Consulta si rifà al principio della giusta retribuzione, di cui il TFS è una componente. Ed essa si sostanzia non solo nella congruità della somma corrisposta al lavoratore, ma anche nella sua tempestività.

Secondo i giudici, non è tollerabile la protratta “inerzia legislativa” del Parlamento.

Quando i dipendenti pubblici vanno in pensione, hanno diritto a quello che per loro si chiama TFS, il corrispondente TFR del settore privato. Tuttavia, nel 2011 il governo Monte introdusse limitazioni alla riscossione immediata. Le somme fino a 50.000 euro sono erogate trascorsi 12 mesi dopo i 90 giorni dalla data del pensionamento. Le somme eventualmente maggiori dei 50.000 euro saranno erogate dopo altri 12 mesi (24 mesi dal pensionamento) e quelle che superano i 100.000 euro dopo altri 12 mesi ancora (36 mesi dal pensionamento). Ed è proprio questo TFS a rate ad essere stato confermato inconstituzionale.

Lunghe attese e ora rischio “buco” conti INPS

In pratica, i dipendenti pubblici possono arrivare ad aspettare fino a più di tre anni per avere ciò che spetta loro di diritto. Ma il periodo di attesa può arrivare ad un massimo di sette anni nel caso siano andati in pensione con una qualche forma di anticipo, come attualmente accade con quota 103. Un’assurdità legislativa, che nasce dall’esigenza di una dozzina di anni fa di limitare gli esborsi per non impattare i conti pubblici. La sentenza della Consulta, però, non è stata una doccia fredda. L’INPS si era preparata a una tale ipotesi, anche perché nel 2019 i giudici avevano stabilito che non fosse più legittimo ritardare i pagamenti per i casi di raggiunti limiti di età o di servizio.

L’ente aveva calcolato in 14-15 miliardi i maggiori esborsi dovuti, sostenendo che sarebbero “alla portata”. Ad esempio, solo nel 2024 sono attesi 150.000 pensionamenti tra i dipendenti pubblici. Calcolando una media di 70.000 euro per ciascun TFS, arriveremmo a una spesa di 10,5 miliardi. Attenzione, non si tratta di un aumento di spesa, bensì in un anticipo di un pagamento finora ingiustamente ritardato. Il fatto è che sul piano finanziario adesso si andrebbero ad accumulare gli esborsi passati eventualmente da anticipare con quelli dei nuovi pensionamenti.

Uscita graduale verso TFS subito

La Consulta sembra avere suggerito al Parlamento la strada per la composizione tra due interessi apparentemente in conflitto: la tutela dei diritti dei dipendenti pubblici e la tenuta dei conti dello stato. La parola d’ordine sarebbe “graduale”, cioè l’applicazione della sentenza, si legge, potrà avvenire partendo dai TFS meno elevati per estendersi a tutti gli altri nel tempo. In altre parole, la rateizzazione potrebbe per il momento rimanere per gli importi più alti, ma i dipendenti che andranno in pensione per il raggiungimento dei limiti di età e di servizio, verosimilmente non attenderanno più fino ai 36 mesi come oggi.

Un’ipotesi alternativa o complementare potrebbe consistere nell’accorciare la durata di tale rateizzazione. Ciò non toglie che da qui a qualche anno lo stato dovrà porre fine a una disciplina introdotta nel 1997 e inasprita nel 2011. Tra le altre cose, sempre i giudici hanno rilevato – un plauso alla Consulta – quanto suoni come una “beffa” il meccanismo che consente ai dipendenti pubblici di accedere subito al TFS attraverso un prestito bancario a titolo oneroso. In pratica, per avere ciò che spetta loro di diritto, sono costretti a pagare. Una stortura denunciata da tempo dalla categoria e che non è stata ascoltata dal legislatore, che è andato avanti anche dopo la sentenza del 2019, complice il Covid, come se nulla fosse accaduto.

Solo che adesso i giudici costituzionali hanno scritto la parola “basta”.

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