Da settimane i mercati finanziari sono alla disperata caccia di minimi segnali che possano far intravedere, se non una discesa, perlomeno una stabilizzazione dei tassi di interesse. Aspettavano con grande apprensione il dato di venerdì sul numero di posti di lavoro non agricoli creati a settembre negli Stati Uniti. Le previsioni erano per una crescita ai ritmi più deboli da inizio 2022. Il consensus medio si aggirava attorno a 170 mila unità. Invece, è stato uno choc apprendere che di posti di lavoro ne siano stati registrati +336 mila, record dallo scorso gennaio.

E complessivamente, nei mesi di luglio e agosto i dati sono stati rivisti al rialzo di 119 mila unità.

Mercato lavoro USA in piena occupazione

La reazione del mercato obbligazionario non si è fatta attendere. Il T-bond a 10 anni ha visto impennare subito dopo la pubblicazione il rendimento dello 0,16% al 4,88%. E un ennesimo aumento dei tassi a novembre da parte della Federal Reserve è considerato adesso un po’ più probabile, seppure ancora minoritario tra gli analisti e gli investitori. Il mercato del lavoro negli Stati Uniti continua ad andare a gonfie vele. E quella che nei fatti è una buona notizia, per gli obbligazionisti non lo è affatto.

A poco vale che i salari orari siano cresciuti meno delle attese (+0,2% mensile e +4,2% annuale contro rispettivamente +0,3% e +4,3%). Non c’è nell’aria un possibile raffreddamento della loro crescita, che possa confortare il governatore Jerome Powell. Con un tasso di disoccupazione fermo al 3,8%, gli Stati Uniti restano in piena occupazione. E la FED deve tenerne conto. Il doppio mandato prevede che debba garantire la stabilità dei prezzi, intesa come tasso d’inflazione al 2% nel medio termine, compatibilmente con la piena occupazione, grosso modo corrispondente a un tasso di disoccupazione in area 4%.

BCE costretta a prudenza

Finché questi saranno i numeri, difficile che la stretta sui tassi possa fermarsi. Non avrebbe d’altronde senso smettere di alzare il costo del denaro, visto che la prima economia mondiale segnala di saperne assorbire i contraccolpi.

Le ripercussioni rischiano di essere pesanti, invece, sull’Europa. Da noi, la congiuntura economica è tutt’altro che positiva. La Banca Centrale Europea (BCE) ha alzato già i tassi di 450 punti base al 4,50% in poco più di un anno. La crescita del PIL nell’Eurozona si è spenta, anzi la Germania è entrata in recessione.

Più i tassi FED saranno alti, più forte l’impatto sull’unione monetaria. I T-bond stanno trascinando al rialzo i rendimenti europei, con il Bund decennale già a ridosso del 3%. Come se non bastasse, ciò indebolisce l’euro e le altre principali valute mondiali e rafforza il dollaro. Il cambio euro-dollaro è sceso sotto 1,05 nelle scorse sedute. E il mercato arriva a scontare una discesa fino a 0,95 entro gennaio. Tutti elementi che spingono la BCE a non poter mutare linguaggio sui tassi, altrimenti rischierebbe di provocare ancora più danni. Un euro debole aumenta i costi dei beni importati, traducendosi in un tasso d’inflazione più alto.

Tassi legati a forza lavoratori americani

Siamo nelle mani dei lavoratori americani. La loro forza negoziale è diventata la nostra maledizione, almeno nel breve periodo. Abbiamo visto il presidente Joe Biden e il suo predecessore Donald Trump sostenere i lavoratori del settore auto nel Michigan, in sciopero per strappare condizioni retributive migliori. Un fatto inedito, che la dice lunga sull’importanza che la classe operaia a stelle e strisce sta recuperando dopo decenni apparentemente di declino. Difficile in queste condizioni che gli stipendi arrestino la corsa, anche perché non si è fermato il fenomeno del Big Quit, esploso in era Covid.

Volendo essere brutali, i lavoratori americani guadagnano e i loro colleghi europei pagano pegno a colpi di tassi alti e indebolimento della crescita economica.

Servirebbe il contrario per sperare nella fine della stretta monetaria a Francoforte. Possibile che da ottobre i dati sul mercato del lavoro negli Stati Uniti saranno più tiepidi, ma ad oggi non s’intravede quella temuta recessione attesa tra la fine di quest’anno e gli inizi del prossimo. A meno che essa non arrivi con la stessa velocità con cui si è materializzata l’inflazione negli ultimi tempi. Comunque sia, il destino sui tassi BCE non sembra essere nelle mani della BCE.

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