Il dato sull’inflazione di aprile nell’Area Euro è risultato in crescita rispetto a febbraio, salendo dal 6,9% al 7%. Allo stesso tempo, però, l’inflazione di fondo è diminuita dal 5,7% al 5,6%. Al netto di energia e generi alimentari, due tipiche componenti volatili del paniere, la crescita dei prezzi al consumo starebbe iniziando a rallentare. E questo è il principale, benché non unico segnale circa il fatto che la stretta monetaria della Banca Centrale Europea (BCE) si avvierebbe alla conclusione. Vale lo stesso per la Federal Reserve negli Stati Uniti.

Oggi si tiene il terzo board dell’anno a Francoforte e cresce il consenso tra gli analisti su un aumento dei tassi d’interesse deciso dalla BCE dello 0,25%. Sfuma l’ipotesi di un +0,50%, che non va comunque esclusa.

Se le previsioni avessero ragione, il tasso di riferimento salirebbe dal 3,50% al 3,75%, il tasso sui depositi bancari dal 3% al 3,25% e il tasso di rifinanziamento marginale dal 3,75% al 4%. Dicevamo, inflazione dato non unico che porta a prospettare una via d’uscita dalla stretta monetaria. La stessa BCE ha pubblicato in settimana i risultati di un sondaggio condotto tra le banche dell’Area Euro. Essi delineano un calo dei prestiti al settore privato più marcato delle previsioni. Il 27% ha risposto di avere ristretto le condizioni di accesso al credito. E il tasso di crescita adjusted per i prestiti alle famiglie è diminuito a marzo al 2,9% dal 3,2% di febbraio. I prestiti alle imprese sono cresciuti nello stesso mese del 5,2% contro il 5,7% di febbraio. Ed è proseguito il calo dei depositi, stavolta anche ad opera delle imprese non finanziarie.

Stretta monetaria efficace

In pratica, il report darebbe ragione alla BCE: la stretta monetaria varata a partire dall’estate scorsa inizierebbe a dare i suoi frutti. Chiaramente, ciò implica un probabile rallentamento per l’economia nell’Area Euro già in corso. Nel primo trimestre, essa è cresciuta solo dello 0,1% su base trimestrale e dell’1,3% annuo.

Pesa la stagnazione della Germania, mentre il PIL è risultato trainato da paesi come Italia, Spagna e, in misura minore, dalla Francia. Ad ogni modo, aumentare i tassi BCE dello 0,50% con una congiuntura debole non sarebbe una mossa popolare forse neppure tra i componenti del board.

C’è poi anche il fatto che con ogni probabilità la FED ha cessato la sua stretta monetaria proprio con il board di maggio conclusosi ieri. Si allenta, quindi, la pressione su Francoforte per continuare ad alzare i tassi d’interesse. Il cambio euro-dollaro si è già portato oltre quota 1,10, un ulteriore segnale rassicurante per Christine Lagarde. Una moneta unica più forte riduce i costi dei beni importati e contribuisce a disinflazionare l’economia. Infine, la crisi bancaria. E’ vero che per il momento non stia riguardando l’Europa, ma assistere a tre fallimenti in poche settimane negli Stati Uniti non lascia indifferenti.

Anche perché specularmente nell’Area Euro l’anello debole sarebbero alcuni stati. Goldman Sachs e Moody’s hanno prospettato guai per l’Italia con il prosieguo della stretta monetaria. Il nostro debito pubblico non reggerebbe ulteriori aumenti dei tassi BCE senza che il mercato ne tragga le conseguenze. L’agenzia ha persino adombrato un taglio del rating a “spazzatura”. E Fitch ha da poco declassato la Francia sull’attesa che le tensioni sociali allontanino le riforme. Il messaggio neppure troppo cifrato inviato a Francoforte sembra essere il seguente: “prudenza o rischiate anche voi”. Vedremo se sarà recepito.

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